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lunedì 12 dicembre 2016

Allenamento Sportivo



Parlare di un fenomeno così complesso è sempre un grande azzardo perché, per definizione, l'allenamento sportivo rappresenta l'essenza stessa dell'uomo che si muove e, in una chiave di lettura moderna, la "prestazione" intesa banalmente come risultato, acquista invece un significato molto più ampio, inglobando in un "olistico abbraccio" qualsiasi traguardo motorio dall'uomo raggiungibile, un classico risultato sportivo, ma anche e, forse soprattutto, il mantenere, l'acquisire o il ri-acquisire determinate abilità motorie, funzionali a chi le compie, per età, stato sociale, stile di vita.
Inutile girare intorno a concetti, magari anche corretti, senza contestualizzarli; la rete e soprattutto i social network, vista la ormai capillare diffusione, nascondono numerosissime trappole in tal senso, permettendo un endemico contagio di "notizie" che, in un determinato contesto avrebbero senso o addirittura dovrebbero essere fondamentali, ma in generale non sono altro che poco più di fantasiose fandonie.
Vedere alcuni (pseudo, a questo punto) professionisti dell'allenamento sportivo condividere articoli "sensazionali" senza il minimo sforzo per inquadrali in un discorso più ampio, solo per ricevere (inutile, a mio avviso) attenzione mediatica, ritengo sia esclusivamente un becero diffondere disinformazione, ignoranza e, soprattutto, dimostrazione di coda di paglia e poca preparazione.
L'effetto e' devastante, come un fastidioso e continuo rumore di sottofondo, un cigolare senza sosta nel cervello ... Più o meno come sentire parlare di Costituzione chi, fino a pochi giorni fa, ne ignorava perfino l'esistenza.
Un gran clangore, ma poca conoscenza (e ancora meno scienza e coscienza).
Per chiudere, inserisco questa piccola immagine dove possiamo vedere le linee guida dell' ACSM (American College of Sport and Medicine), ente di riferimento mondiale nel campo della medicina sportiva, per un'attività motoria che sia in primis sinonimo di salute.


Siccome siamo professionisti le teniamo in grande considerazione, ma consapevoli della loro "generalità" e, quindi, di dover personalizzare ogni volta.
Buon Allenamento, qualunque esso sia.

SL.A.

Immagini tratte da:
www.cityrumors.it
Fitness: ricerca e pratica in continua evoluzione - Piacentini - CalzettiMariucci editore - 2010 

domenica 16 ottobre 2016

Se non avete fretta di invecchiare ... MUOVETEVIIIIIII!!! - Nessuno apre la porta al tuo posto -


Se non avete fretta di invecchiare … MUOVETEVIIIIIII!!!!
-Nessuno Apre La Porta Al Tuo Posto-

Partiamo dal titolo.
Una quindicina di anni fa, una famosissima (tutt’ora) marca per attrezzi fitness adottava come slogan pubblicitario una frase ad effetto < Se non avete fretta di invecchiare, muovetevi >. L’evidente gioco di parole e l’espressione bonaria, contrastante con il lavoro al limite del testimonial d’eccezione, Michael Shumacher, rendevano questa espressione un ossimoro penetrante le coscienze di noi, addetti ai lavori e di tutto il “movimento fitness” che, con le varie declinazioni che lo caratterizzavano, stava invadendo in maniera endemica il mondo un po’ ammuffito dell’attività motoria, della ginnastica.
La frase, commercialmente studiata ad hoc, sottende una verità talmente profonda da non essere probabilmente nemmeno immaginata dagli scatenati pubblicitari che l’hanno ideata e probabilmente nemmeno da chi, seguendo l’onda entusiastica di qualche “Festival del Fitness”, l’ha fatta propria e sbandierata nella creazione di programmi di condizionamento fisico strampalati e insensati, imperanti nelle palestre più trendy di inizio millennio.
L’errore di fondo, insito nella frase, ma non evidente in maniera immediata è stato quello di offrire l’idea che potesse esserci una soluzione semplice (muoversi) ad un problema complesso (invecchiare), senza porre l’accento sul “come” muoversi e, soprattutto, sul “come” invecchiare. Questo fraintendimento ha dato origine, come dicevamo, alla più diversificata proposta di attività fisiche, dove il “basta muoversi” crea così un popolo (quello del fitness) di goffi esecutori, dove le abilità motorie sono ridotte al minimo (tanto “basta muoversi”), dove la propriocezione e le abilità sensoriali sono relegate in un angolo, dove al primo posto spunta un concetto alieno all’uomo come tale, “l’angoscia” del corpo, la ricerca di un controllo ossessivo, l’estremo mettersi in gioco (“devo allenarmi”, “non posso rinunciare”), anche quando non ci sarebbero le possibilità (stanchezza, infortuni), il terrore dell’invecchiamento come fenomeno biologico, ecc … tutti segni di debolezza estrema, esempi di come si sia progressivamente perso il contatto con il proprio essere e di come un mondo virtuale, costruito ad arte dalla proprie elucubrazioni, lo stia sempre più sostituendo.
L’errore di fondo è stato quello di inventare un nemico, l’invecchiamento, che nemico in effetti non è.
Però la frase è anche “giusta”, nel senso che, in effetti, è proprio così: se non ci si muove, si invecchia prima e peggio di come la nostra biologia ha programmato; questo deve essere chiaro, la differenza però non è data tanto “dal fare”, ma dal “come viene fatto”.
Vediamo: < se non ci si muove in modo adeguato e se non ci si nutre consapevolmente si invecchia prima e da ammalati > a livello pubblicitario è una frase di merda, ne convengo, ma probabilmente mette un pochino più a fuoco la problematica.

“Nessuno apre la porta al tuo posto” – Detto Zen –
Qui subentra l’uomo. Assumersi le proprie responsabilità: vogliamo cambiare le cose? Vogliamo invertire la tendenza che ci vuole grassi, flaccidi e mollicci? Vogliamo essere padroni del nostro futuro? Vogliamo invecchiare sereni godendo a pieno delle potenzialità che il nostro organismo può donarci? Siamo sempre in tempo, ma dipende SOLO da noi.
La scienza lo testimonia, l’attività fisica ben strutturata oltre a sensibili miglioramenti a livello organico (cuore, muscoli, ossa …) è in grado di regalarci (e che regalo!!!) numerosi effetti positivi anche sul cervello: neuroplasticità, miglioramento delle funzioni cognitive e dell’apprendimento; la separazione dei fenomeni mentali da quelli corporei di Cartesiana memoria è decisamente da abbandonare: il cervello, origine di tutti i processi mentali si adatta al lavoro che gli viene imposto, dunque può venire plasmato anche dall’allenamento.

Diventa impossibile a questo punto immaginare un allenamento che scolleghi il lavoro fisico da quello mentale, non “basta muoversi”, non più, gli stimoli devono essere diversi, diversificati per ogni esigenza e, soprattutto, coinvolgere in maniera profonda questa connessione corpo-mente, non due faccia della stessa medaglia, ma entrambe la medaglia stessa.
Mi piace dire spesso: “l’allenamento è molto più di ciò che sembra”, ed in effetti è proprio così.
SL.A.

Le immagini sono tratte da:
Unicoop Firenze
Dott.ssa Chiesi Scilla
Segni dei Tempi

sabato 8 ottobre 2016

IL MOVIMENTO NON HA PADRONI

TITOLO: IL MOVIMENTO NON HA PADRONI
SOTTOTITOLO: La parola d’ordine è: “Non Convenzionale”
“Ciao, qual è il tuo personaggio dei fumetti preferito?”
“Ciao”.“Beh, non saprei; Capitan America suppongo, o forse l’Uomo Ragno, o magari Batman, o piuttosto Wolverine”.
“Dai pensaci bene”.
“In effetti … Archimede Pitagorico”
“Ma chi? Archimede dei fumetti Disney?”
“Sì”. “Proprio lui; l’inventore”.
Un immaginifico dialogo tra i miei due emisferi cerebrali potrebbe essere una cosa di questo tipo; la porzione sinistra, logica, concreta e razionale, interroga la parte destra, istintiva, artistica, fantasiosa. Due porzioni indipendenti e complementari che contribuiscono (in maniera fondamentale) a renderci ciò che siamo.
Torniamo ad Archimede Pitagorico (Gyro Gearloose in lingua originale), di professione inventore.
È lui il mio personaggio preferito, perché ho sempre guardato con sconfinata ammirazione il suo intelletto sopraffino cimentarsi nelle più bizzarre creazioni; forse l’aspetto più affascinante della scienza, l’inventare, ciò che mischia intelligenza e fantasia, pensiero razionale e pensiero laterale, un connubio perfetto, una collaborazione ottimale tra i due emisferi, il punto più alto raggiungibile dall’uomo pensante e dall’uomo emozionale.
La caratteristica vincente del nostro eroe è la capacità di trasformare gli oggetti comuni, in qualcosa di nuovo, di diverso, di inimmaginabile. In qualcosa di “non convenzionale”, per dirla in breve. Il mondo fantastico dei fumetti permette qualunque cosa e, l’amico Archimede, non si tira di certo indietro, dando libero sfogo a tutte le sue capacità per soddisfare le incredibili richieste degli abitanti di Paperopoli e, di Zio Paperone in particolare.
Il centro del discorso non è, ovviamente Archimede; ci ha aiutato ad estrapolare il concetto: “Non Convenzionale”, concetto che, a mio parere, deve sedere alla base, o quantomeno, ai primi piani del palazzo che forma l’attività motoria.
Cosa intendiamo per “Non convenzionale”? In breve ci riferiamo ad un qualcosa che non segue passivamente una consuetudine o una tradizione, qualcosa di non stereotipato, di non banale, qualcosa ricco di originalità, di naturalezza, di personalità. Questo qualcosa, nel caso specifico è il “Movimento”; l’uomo che si muove.
Tutto sommato l’insegnamento che il buon Archimede Pitagorico può darci è quello di uscire dagli schemi; l’attività motoria, mondo dove il “Mainstream” la fa da padrone, si presta perfettamente a questa svolta: potrebbe sembrare strano, ma non esistono regole, non esistono vincoli, non esistono padroni … IL MOVIMENTO NON HA PADRONI, le idee non hanno padroni, si deve avere SOLO (e non è per nulla poco) la capacità, la preparazione e l’accortezza di rispettare l’anatomia e la fisiologia umana, adattare la biomeccanica ad ogni individuo, conoscere la biochimica e la bioenergetica che regolano le reazioni metaboliche e poi dare libero sfogo al proprio essere, alle proprie <invenzioni>, al proprio modo di interpretare l’atto di muoversi; “Si insegna e si può insegnare solo quello che si è”. Diffido da chi pretende di avere il comando, da chi “Ipse Dixit”, l’ha detto lui, e quindi così deve essere, da chi sbandiera una presunta superiore scientificità o investitura divina con tanto di tavole della legge scolpite nella pietra. Il cervello umano riconosce il movimento nel suo insieme e non il singolo muscolo: la completezza del gesto motorio è la regola aurea; il rispetto della persona che si ha di fronte è la regola aurea; considerare un individuo che si muove e vive in un determinato ambiente è la regola aurea; l’attività motoria non è sport, è un bisogno ancestrale dell’uomo, è vita e, come tale, ribadisco con forza, NON HA PADRONI.
La ricerca di un movimento a misura d’uomo si coniuga perfettamente con la parola “Laboratorio”; come Archimede Pitagorico ha il suo, noi abbiamo il nostro “Laboratorio Motorio” presso Stile Libero, dove l’esplorazione “Non Convenzionale” del movimento non è volta a trovare un “Santo Graal” motorio, un gesto, od un attrezzo, od un esercizio superiore ad altri, bensì a cercare l’esercizio migliore o più funzionale, o più utile a chi lo compie … “Alla fine della nostra esplorazione arriveremo là dove siamo già stati e conosceremo il luogo per la prima volta”; nessuna regola, nessuna convenzione, ma un inchino, umile e profondo, ad ogni corpo che si muove.
 
SL.A.
Le immagini sono tratte da:
Foto di Palestra Stile Libero - Finale Ligure

domenica 18 settembre 2016

Il Cervello in fondo ai Piedi

IL CERVELLO IN FONDO AI PIEDI


Cosa significa elaborare un pensiero sulla facoltà di pensare? Solo i membri della nostra specie possono porsi questa domanda, poiché nessun altro organismo esistente sul pianeta ha la configurazione fisica o neurale per arrivarvi, anche solo lontanamente, vicino; inoltre, la risposta a questo interrogativo talvolta implica un complesso viaggio intellettuale, per quanto la sua destinazione sia saldamente ancorata nel cervello umano.
Esordisce così [1], splendido volume che, dal punto di vista evolutivo, indaga in che modo, cerebralmente, siamo diventati ciò che siamo.
Una battaglia durata alcuni milioni di anni dove, allo scopo di ottenere una propria nicchia ecologica, numerose specie di ominidi sono entrate in competizione le une con le altre. Un viaggio completato da un’unica stirpe della nostra famiglia zoologica, noi, in grado nel tempo di eliminare tutte le altre concorrenti al posto di protagonista del palcoscenico evolutivo.
È fuori di dubbio che “il cervello” sia stato un indiscusso protagonista di questa (trionfale?) cavalcata.
Il nostro cervello controlla virtualmente ogni nostra azione; dal punto di vista comportamentale ci rende ciò che siamo in qualità di individui unici, così come dal punto di vista collettivo è sempre lui che nella sua straordinarietà e assoluta novità consente alla nostra specie di essere quell’entità psicologicamente complessa, altamente selettiva e talvolta bizzarra che siamo [1].
Ma non è del cervello che voglio parlare oggi.
Rimanendo nell’ambito di un’analisi evoluzionistica, vediamo come approfondire la ricerca pone l’accento su di un’altra porzione del nostro corpo anzi, soprattutto sull’utilizzo di questa parte, come distintiva della nostra specie e come probabile candidata al ruolo di primo vero vantaggio evolutivo; andiamo a localizzarla nel posto più lontano dal cervello (curioso): il piede; diventare bipedi con un certo grado di efficienza si lega strettamente allo sviluppo del cervello, permettendo così quel salto in avanti che ci ha reso uomini.
Una rapida occhiata al piede:
26 ossa (!) di dimensioni e struttura differente permettono la massima efficienza in quelle che sono le due funzioni evidenti del piede: funzione statica (sopporta il peso del corpo); funzione dinamica (spostamento del corpo). L’integrità del piede assicura, dunque, un buon appoggio e una buona deambulazione.
31 articolazioni (!), più di 100 legamenti e 20 muscoli (!) (tra intrinseci ed estrinseci) ottimizzano la statica e la dinamica.
Parecchie migliaia di terminazioni nervose lo connettono, in pratica, con tutto l’organismo.
La perfetta collaborazione tra tutte queste strutture ha il fine ultimo di far funzionare al meglio questa porzione del corpo umano così forte e, nello stesso tempo, delicata nell’equilibrio che la caratterizza.
L’evoluzione dell’uomo, attraverso i milioni di anni che l’hanno disegnata, ha plasmato e integrato ogni cambiamento funzionale nello schema motorio, passando attraverso generazioni che hanno affinato l’anatomia attraverso l’utilizzo. Il piede, nella sua funzione, come già detto, prevalentemente motoria e di sostenimento del peso corporeo, assolve mirabilmente i suoi compiti anche grazie alle sue notevoli potenzialità propriocettive.
La forma del piede è dunque il risultato di tutto questo lavoro evolutivo ed è in stretta relazione alla sua funzionalità biomeccanica.
Come dimenticare, a questo punto, il ruolo neurofisiologico del piede (abbiamo parlato di migliaia di terminazioni nervose): il contatto al suolo permette dunque una duplice funzione, effettore (statico o dinamico) e sensoriale. Dal punto di vista sensitivo la pianta del piede è ricca di recettori cutanei (tattili), articolari e muscolari, che rappresentano una fonte insostituibile di informazioni estero e propriocettive per il controllo dell’equilibrio e della postura. È significativo rammentare che l’area corticale sensitiva del piede è superiore a quella della mano, mentre per l’area motoria accade il contrario (Homunculus di Penfield e Rasmussen).
In ultimo, ma non per importanza, il piede unisce la sua originalità biomeccanica, la sua efficienza neuro-muscolare al fatto che è inequivocabilmente una struttura tensegrile, cioè un sistema auto stabilizzante, ma capace di interagire in modo dinamico.
Sembrerebbe superfluo ricordare che noi camminiamo con i piedi, siamo appoggiati a terra con i piedi, ci muoviamo con i piedi ... l'importanza del piede non solo nella propria componente biomeccanica, ma anche neurosensoriale (propriocettiva ed esterocettiva) è oggi universalmente riconosciuto, tanto che è considerato, assieme agli occhi, l'ingresso primario del Sistema Tonico Posturale (l’insieme delle strutture neurofisiologiche del nostro organismo che regolano i rapporti tra il nostro corpo e il mondo che ci circonda costituisce il s.t.p.: ricevendo informazioni dagli occhi, dalla pelle, dai piedi, dai muscoli, dall'orecchio interno e dalla bocca, esso è continuamente in grado di conoscere la nostra posizione e di mettere in atto le necessarie variazioni del nostro "schema corporeo", così da rispondere sia alle necessità e stimoli previsti che a quelli imprevisti).
Ma quando abbiamo iniziato ad usare i piedi? Quando l’antenato dell’uomo moderno si è “alzato” dalla sua condizione di ominide e si è trasformato in Homo?
Beh, molto prima che il cervello iniziasse a crescere, a implementare le sue connessioni, molto prima che iniziassimo, quindi a “pensare il pensiero”.
Non è facile un viaggio a ritroso nel tempo che sia preciso ed inequivocabile, soprattutto quando i resti fossili sono pochi e si parla di milioni di anni di storia.
Orrorin Tugenensis è un ominide risalente a circa 5,5 milioni di anni fa, scoperto nel 2001. Riguardo al suo sistema locomotorio, lo studio di un paio di porzioni di femore ben conservate, farebbe pensare ad un bipedismo piuttosto sviluppato. Non tutti gli scienziati concordano in pieno con queste interpretazioni e nuove ricerche sono tutt’ora in corso [2].
Nel 2009 un’importante scoperta scuote il mondo paleoantropologico: Ardipitecus Ramidus, Ardi per gli amici, probabilmente una femmina di 120 cm per 50 kg. Il cervello è piccolo, Ardi vive ancora nella foresta, una foresta a chiazze, intervallata da ampie radure, molto probabilmente onnivoro, lo scheletro mostra caratteristiche di una creatura a suo agio nel movimento tra gli alberi (uso di mani e piedi, alluce opponibile), senza però essere un brachiatore (Gibbone) né un knulle walker (Gorilla o Scimpanzé). Sul terreno, invece, aveva una forma di bipedismo, chiaramente indicata dalla porzione più alta del bacino, dalla presenza di creste e spine atte a fornire punti di inserzione a legamenti e muscoli utili per sostenerlo nella stazione eretta, dalla presenza del foro occipitale in posizione più avanzata rispetto a quello delle antropomorfe [2, 3, 4]. Siamo a circa 4,5 milioni di anni fa.
Ovviamente la struttura del piede di Ardi non è come la nostra. Il suo piede è lungo e ricurvo come quello di un animale abituato ad arrampicarsi sugli alberi e con l’alluce opponibile; la struttura non ricorda particolarmente quella di una qualsiasi moderna scimmia antropomorfa, ma di certo quel piede non è neppure adatto a camminare [3].

E allora come camminava davvero Ardi? È difficile dirlo. Senza dubbio aveva una sua sorta di locomozione bipede, probabilmente non troppo efficiente; in questo momento si candida ad essere il più arcaico nostro antenato (in armonia con il suo nome Ramidus, derivato da Ramid, termine afar che significa radice; radice dell’uomo), anche se ulteriori studi sono senza dubbio necessari.
Il bipedismo è un tipo di locomozione molto raro, per non dire assente fra i primati attuali ed estinti. La varietà di modelli locomotori tra i primati è altissima, tanto da far affermare ad alcuni ricercatori che esistano tante forme di locomozione quante sono le proscimmie e le scimmie. In un quadro così ricco, il nostro bipedismo e la postura eretta che lo accompagna sono una mera eccezione, tanto da sembrare uno scherzo della natura. È vero, uno scimpanzé o un gibbone attuali, per brevi tratti, possono deambulare su due piedi, ma la costituzione corporea del bipede in postura eretta è nostre esclusiva peculiarità. Come la capacità di “pensare il pensiero”. Bizzarro, vero?
Le storie di Orrorin e Ardi, si perdono nel mistero e necessitano di ulteriori ricerche; i primi ominidi, Australopithecus e Paranthropus, invece, ci hanno lasciato qualche documento in più: il loro bipedismo sembra affiancarsi e non sostituirsi del tutto alla locomozione arboricola. Parliamo quindi di bipedismo facoltativo [2], intendendo un bipedismo affiancato dalla conservazione di proporzioni corporee tipiche delle scimmie antropomorfe. Sarà il genere Homo che vedrà affermarsi un bipedismo “obbligato” (ancora prima dell’espansione cerebrale) che verrà a rappresentare l’unica modalità locomotoria a nostra disposizione. In noi il bipedismo ha coinvolto tutto l’organismo, modificandolo, plasmandolo e rendendolo quello che attualmente è (o dovrebbe essere), possiamo affermare che in un certo senso siamo figli del bipedismo.
Gli accorgimenti anatomo-funzionali (posizione e forma del bacino, utilizzo della muscolatura glutea, posizione del foro occipitale, curve della colonna vertebrale, forma dell’osso sacro, conformazione di femore e tibia, trasformazione del piede da organo prensile a “macchina” sensoriale, formidabile piedistallo, elemento dinamico specializzato, … potete approfondire in bibliografia) creatisi nel passaggio al bipedismo ci hanno reso uomini (potete, se siete curiosi, approfondire qui: ( http://www.nature.com/nature/journal/v432/n7015/full/nature03052.html http://www.nature.com/news/2004/041115/full/news041115-9.html ), hanno, probabilmente, anche reso possibile lo sviluppo cerebrale successivo; l’uomo si è evoluto grazie al movimento. Muoversi è parte di noi, come il cuore che batte, come il cervello che pensa.
Ma torniamo un attimo indietro. Torniamo al genere estinto Australopithecus.
Lucy, è forse la scoperta più famosa in campo paleoantropologico. Con una piccola ricerca in rete potete scoprire tutto su di lei, il suo scheletro è quello rappresentativo di Australopitechus Afarensis. A questa specie vengono anche attribuite le impronte di Laetoli, in Tanzania. Si tratta di una pista di almeno 20 m composta da due file di orme lasciate da primati bipedi circa 3,6 milioni di anni fa. Queste si sono poi fossilizzate nell’esteso tratto di cenere vulcanica cementato (tufo) di cui è composta la stratigrafia del sito. Le piste, scoperte nel 1978, sono state recentemente sottoposte ad un elaborato intervento di conservazione e protezione (che ha incluso riti di “sacralizzazione” dell’area per cui sono state coinvolte le popolazioni locali Masai). È stato quantomeno un atto dovuto, visto che si tratta della testimonianza più suggestiva riguardo alla locomozione bipede dei nostri remoti antenati [2]. Questo reperto è estremamente affascinante perché dalla ricostruzione risultano due individui bipedi di taglia diversa che camminano: il grosso maschio e la femmina, decisamente più minuta; sono uno al fianco dell’altro, probabilmente in contatto fisico (a braccetto?). C’è poi un terzo individuo, anch’esso piccolo, forse immaturo, magari un cucciolo, quasi sicuramente, perché fa una cosa buffa: cammina quasi saltellando, per mettere i piedi nelle impronte lasciate dal più grande dei due genitori. Lo trovo bellissimo. E toccante.

Torniamo a noi. Torniamo al bipedismo.
Perché bipedi? Si chiede [3]. È da tempo fonte di dibattito il motivo che avrebbe spinto i nostri lontani parenti di 4 milioni di anni fa ad acquisire questa nuova postura. I vantaggi di questa modalità di spostamento non sono così ovvi, mentre gli svantaggi iniziali (per esempio la perdita di velocità in un ambiente ad alto tasso predatorio) sono chiari.
Già a metà del diciannovesimo secolo Darwin provava a dare una spiegazione e aveva associato il bipedismo degli ominidi con la liberazione delle mani, una novità utile per modificare oggetti e realizzare strumenti. Tale proposta è stata poi ampliata con la capacità di trasportare cose, cibo incluso, su lunghe distanze.
Oggi sappiamo che queste sono delle conseguenze “tardive” del bipedismo, poiché la nostra capacità di realizzare utensili si è sviluppata ben dopo aver adottato questa forma locomotoria.
La varietà degli altri ipotetici vantaggi è comunque vasta: aspetti energetici (sembra che muovendosi in piedi e lentamente si riuscisse a risparmiare energia), anche se è un argomento tutt’ora controverso; termoregolazione: in stazione eretta l’area esposta al sole è decisamente ridotta rispetto ad una posizione quadrupedica, riducendo al minimo l’assorbimento di calore. Inoltre, tenendo la maggior parte della superficie corporea lontana dal terreno si massimizza l’esposizione ai venti freschi. Tale interpretazione appoggia l’idea che la postura eretta possa essere in qualche modo associata alla riduzione del pelo [4]. Anche questa spiegazione ha però dei lati oscuri poiché numerosi resti fossili sono stati rinvenuti in ambienti di foresta o boscaglia, quindi con ampie possibilità di stare all’ombra. Lo stesso motivo mette un po’ da parte l’ipotesi un tempo popolare per cui gli ominidi si sarebbero “alzati” per vedere oltre le piante erbacee della savana e scorgere eventuali predatori.
Altre ipotesi mettono in relazione la capacità di camminare eretti con determinate forme di comportamento sociale. Si è ipotizzato, ad esempio, che i maschi dei primi ominidi bipedi potevano spostarsi per trovare cibo, poi, avendo le mani libere, potevano portarlo alle loro compagne, più limitate negli spostamenti a causa del peso dei piccoli (è stato anche ipotizzato che il bipedismo renda più semplice portare i figli con sé).
L’elenco dei presupposti vantaggi (e delle obiezioni agli stessi) potrebbe andare avanti per ore. Forse non c’è neppure un “perché” siamo diventati bipedi. Probabilmente la trasformazione dell’ambiente di vita ha accompagnato questa nostra transizione. Una volta però acquisita questa postura tutti i vantaggi da essa derivati (e tutti gli svantaggi) sono stati ottenuti. E da quel momento la nostra vita non è stata più la stessa.
Il misterioso viaggio fino a diventare Homo, dura  un paio di milioni di anni. Da circa 4 Ma a circa 2 Ma, i cambiamenti sono minimi. Poi, quasi improvvisamente, arriviamo noi, o meglio, una forma arcaica di noi, ma terribilmente simile nella conformazione fisica. Cacciatori/raccoglitori, onnivori, bipedi e “decatleti”. Si impone l’essere umano come adattamento evolutivo vincente. Le sue caratteristiche? Si muove molto (cammina, corre, salta, trascina, spinge, lancia … schemi motori di base) e pensa.
Mi piace credere che l’utilizzo della postura eretta e del movimento che ne consegue, siano la caratteristica che ha reso possibile il dominio della nostra specie o almeno la caratteristica che ha dato il via a tutti gli adattamenti utili ad ottenere questa posizione di supremazia (o supposta tale). Il piede come “miccia” che ha acceso il cervello. Lo trovo particolarmente affascinante.
Se da tutta questa storia dobbiamo trarne un insegnamento, questo è che rinunciare a muoversi significa perdere parte importante della nostra umanità, compresa quell’abilità cerebrale di cui andiamo tanto fieri.
Apro un’ultima parentesi.
Evoluti per correre?
Se avete letto con attenzione, nei due link che ho citato in precedenza, si fa riferimento alla teoria (abbastanza intuitiva, se ci pensate bene) che vede la corsa di resistenza e l’evoluzione dell’uomo procedere a braccetto.
Camminare a lungo ed in maniera efficiente per un cacciatore/raccoglitore nato un paio di milioni di anni fa doveva essere cosa assolutamente fondamentale, così come la capacità di aumentare la velocità di questa forma locomotoria, fino a farla diventare una sorta di primordiale, terrorizzata (scappare dai predatori poteva essere poco divertente), disorganizzata corsa.
Le prove [5] di una veloce specializzazione dei nostri progenitori nella corsa prolungata a velocità moderata sono però molte. Oggi corriamo per divertimento, per gioco, per tenerci in forma, ma questo bisogno ancestrale ricalca quella che in passato era la lotta per il cibo. Proviamo a catapultarci un attimo, con la mente (riusciamo ad essere in grado di immaginare anche grazie a queste nostre corse primordiali, ricordate?), nella savana africana. Per colazione non abbiamo le “gocciole” come una simpatica (quanto fuorviante) pubblicità vuole farci credere; siamo in caccia e i nostri competitori sono belve di svariati quintali in grado di muoversi a più di 70 km/h. In mezzo a queste efficientissime macchine da caccia si muove un essere gracilino (quantomeno in rapporto a questi animali), che invece di zanne e artigli affilati come rasoi, cammina su due gambe e tiene in mano un bastone appuntito o qualche pietra. Si dovesse scommettere, beh, non ci sarebbero dubbi … uomo k.o. al primo round. Quello che però non abbiamo considerato è che questo individuo bipede può pensare (anche se non ancora in maniera moderna), organizzare strategie e sfruttare una capacità che sta, poco per volta, mettendo a punto: la corsa di resistenza. Senza entrare troppo nello specifico, [5] illustra mirabilmente la “caccia di persistenza”. Questa tecnica sfrutta le capacità umane di corsa a velocità moderate, soprattutto in due caratteristiche: la velocità di corsa umana è mediamente quella che costringe ad un quadrupede di passare dal trotto al galoppo; mentre ciò avviene l’uomo ha la possibilità di raffreddare il proprio organismo grazie al sudore, mentre gli animali a quattro zampe riescono ad abbassare la loro temperatura solamente ansimando, cosa che però gli è impedita mentre galoppano; devono fermarsi, quindi.
Immaginate la scena: un gruppo di cacciatori di persistenza sceglie un grosso mammifero (spesso il più grosso) da inseguire durante le ore calde della giornata. Inizialmente l’animale scappa galoppando e cerca di nascondersi in un posto ombreggiato, dove può fermarsi e recuperare. I cacciatori, seguendo le tracce, lo braccano, iniziano a correre e, spaventano la preda che, anche se non è del tutto rinfrancata dal riposo inizia nuovamente a galoppare. Questo ciclo si ripete parecchie volte dove l’uomo alterna camminata veloce alla corsa fino a quando l’animale non stramazza esausto e con la temperatura corporea a livelli letali. In questo modo diventa facile, anche senza armi sofisticate, ucciderlo. Spesso queste battute si protraevano per decine di km. Tutt’oggi sopravvivono popolazioni di cacciatori/raccoglitori che utilizzano questa tecnica [5].

Se siamo corridori eccezionali su lunghe distanze lo dobbiamo all’eredità lasciataci da H.Ergaster, un “prozio” vissuto 2 milioni di anni fa.

E come correva questo nostro lontano parente? A livello fisico era già molto simile all’uomo moderno, quindi è facile pensare che la tecnica di corsa fosse simile a quella attuale. In una visione romantica lo immagino a piedi nudi, sfiorare il terreno con il mesopiede, in modo da poter sfruttare una buona spinta elastica garantita da una sinergia muscolo-tendinea pronta e funzionale, la falcata, elegante, mette in evidenza la muscolatura tornita degli arti inferiori, un “core” scolpito e una inaspettata coordinazione tra parte superiore ed inferiore del corpo, spinto alla massima efficienza da un cervello in crescita e dal volto sorridente.
CONCLUSIONI
Abbiamo visto come “siamo ciò che siamo”, unici nel panorama zoologico del globo terraqueo, grazie alle nostre facoltà cerebrali; gli unici a poter “pensare il pensiero”, in grado di immaginare. Il cervello, grazie ad una alimentazione via, via sempre più ricca in proteine nobili e grassi essenziali, strabordante di acqua biologica, vitamine, fibre e minerali cresce in maniera esponenziale triplicando il proprio volume da “Lucy”, Australopithecus Afarensis, fino a Homo Sapiens, parallelamente o, meglio, conseguentemente all’affermarsi della postura eretta e, soprattutto dell’andature bipede. La capacità di muoversi e di compiere “attività fisica” è dunque la caratteristica che ci rende evolutivamente vincenti. Gli altri adattamenti, soprattutto quelli cerebrali, ci consentono di diventare “dominatori” (con tutti i pro e contro che questo ha, storicamente, comportato).
Muoversi è irrinunciabile per l’essere umano: ci rende vivi, ci rende “umani” nel senso più ampio del termine, ci appartiene in maniera viscerale. Muovetevi il più possibile, in maniera intelligente, cercando di rivivere quelle sensazioni trionfali che dovevano permeare il nostro spirito agli albori; scoprite e sperimentate con il vostro corpo, sfruttandolo nella maniera più globale possibile: correndo, sollevando, camminando, rotolando … facendo, cioè, quello che ci ha reso uomini. In un’accezione moderna, lo definiremmo: Allenamento Funzionale ma, tutto sommato, non ha bisogno di definizioni. È semplicemente vita.
SL.A

>La lepre un giorno si vantava con gli altri animali: Nessuno può battermi in velocità - diceva - Sfido chiunque a correre come me. -La tartaruga, con la sua solita calma, disse: - Accetto la sfida. -Questa è buona! - esclamò la lepre; e scoppiò a ridere. -Non vantarti prima di aver vinto replicò la tartaruga. - Vuoi fare questa gara? -Così fu stabilito un percorso e dato il via.
La lepre partì come un fulmine: quasi non si vedeva più, tanto era già lontana. Poi si fermò, e per mostrare il suo disprezzo verso la tartaruga si sdraiò a fare un sonnellino. La tartaruga intanto camminava con fatica, un passo dopo l'altro, e quando la lepre si svegliò, la vide vicina al traguardo. Allora si mise a correre con tutte le sue forze, ma ormai era troppo tardi per vincere la gara.
La tartaruga sorridendo disse: "Non serve correre, bisogna partire in tempo."<
Esopo

Bibliografia
[1] Brain - Il cervello istruzioni per l'uso - DeSalle - Tattersall - Codice Edizioni - 2013
[2] Il grande racconto dell'evoluzione umana - Manzi - Il Mulino Edizioni - 2013
[3] I signori del pianeta - Tattersall - Codice Edizioni - 2013
[4] Il cammino dell'uomo - Tattersall - Bollati Boringhieri Edizioni - 2011
[5] La storia del corpo umano - Lieberman - Codice Edizioni - 2014
Le immagini sono tratte da:
www.osstefanelli.com
it.wikipedia.org
ilfattostorico.com
www.storiediscienza.it
www.thehistorytemple.com

venerdì 19 agosto 2016

Sportivo fai da te? ... Si!!! No Allenatore? ... No ... Ahi, Ahi, Ahi


Sportivo fai da te?
… Si!!!
No allenatore?
… No …
Ahi Ahi Ahi

Il caldo è veramente opprimente. Non c’è sole forte ma qualche raggio filtra nel labirinto di nubi e, se colpisce, lascia il segno.
Quello che sconvolge è il tasso di umidità; ti avvolge in un soffocante abbraccio, permea ogni più piccola parte del tuo corpo, respirare diventa faticoso, lo stesso atto del sudare … ti fa sudare.
Lui è lì. Compresso in una taglia “L”, quando forse doveva accompagnarla con la X, ma come non dare credito ai consigli alimentari della rivista specializzata alla quale sei abbonato: “sai, è specializzata; non la trovi in edicola”, quella promessa delle due taglie in meno in quindici giorni, proprio prima delle vacanze estive, era veramente allettante; mah, sarà stato il cambio d’aria, gonfia sempre.
Decide, con un impeto d’orgoglio di sollevarsi sui pedali, quando la pendenza chiama, è giusto farsi trovare pronti. Il colore del volto è un raccapricciante cremisi, tendente al violaceo direi, risultato della sommatoria tra le violente esposizioni ultraviolette della spiaggia, l’anossia portata dallo sforzo fisico estremo e, probabilmente, una tendenza smodata agli aperitivi alcolici: “La vita è una, bisogna godersela”.

Alza sbuffante lo sguardo, vuole mettere a fuoco la vetta, errore fatale, perché la distanza lo colpisce con un pugno alla già, fin troppo martoriata, faccia. È un duro, devo ammetterlo, non molla; con consumata esperienza gioca con i rapporti della bici, gli ingranaggi sapientemente eseguono al millimetro ogni richiesta; non mi aspetto nulla di diverso da un mezzo che vale svariati migliaia di euro. Ancora un colpo di pedale, ancora uno … Nooooooooooo!
Sgancia (in extremis) un piede dagli attacchi delle pedivelle e lo poggia a terra. Scuote il capo e, dalla borraccia trasparente, avidamente comincia a bere parecchi sorsi di un liquido verdaceo che sembra, però, rinvigorirlo.
Peccato, mancava veramente pochissimo alla cima.
Decide, intelligentemente, di non rischiare. Scende e per i pochi passi che lo separano dalla vetta, conduce orgogliosamente il mezzo, a piedi. Respiro profondo, guarda indietro e, scruta la profondità della voragine che ha appena superato; leggo sfida nei suoi occhi, leggo voglia di rivalsa, leggo quella sana rabbia agonistica … sembra dire “la prossima volta sarai mia”.
Ancora una sorsata alla pozione verde, una tastata al fondello, come a sincerarsi della presenza di tutto l’armamentario necessario, e via, alla bersagliera, nuovamente in sella.

La strada pianeggiante gli permette di schizzare “come il vento”, rapporto agile, mani basse sul manubrio. Lo so che dentro di lui sta ancora pensando alla salita.
-Tratto da una storia vera-
La “salita” in questione è quella che dal “ponte di ferro” porta su “Via Caprazoppa” … per chi non è pratico, è una rampetta di 20 metri circa.
L’estate porta improvvisazione sportiva, lo so e lo posso capire; la luce del sole, le belle giornate, il tempo libero invogliano a mettersi in gioco, anche perché il movimento è parte del nostro essere uomo, quindi mi sembra normale che appena abbiamo un po’ di tempo per riuscire ad ascoltare il nostro corpo, i suoi messaggi di “mettersi in moto” vengono ascoltati e messi in pratica. Quei messaggi, però ci sono tutto l’anno, sarebbe opportuno riuscire ad avere tempo e voglia di ascoltarli sempre. Chiusa parentesi.
Faccio un discorso un po’ generale, anche se piuttosto attinente alla realtà, qualche bella eccezione esiste, soprattutto fra i più giovani, ma tutto sommato le cose stanno così: mettersi in moto, magari leggendo qua e là su internet i consigli “degli esperti”, particolarmente quando è un po’ di tempo che “si sta fermi”, potrebbe essere più rischioso che benefico. L’organismo ha bisogno di adattarsi alla nuova condizione un po’ in tutti i suoi “sistemi”, a partire da quello nervoso, quello ormonale, circolatorio fino a, ovviamente, quello muscolo-scheletrico. Un’attività improvvisata o svolta saltuariamente (ma anche svolta con certa frequenza), che non tenga conto delle precipue richieste del corpo che la pratica, oltre ad essere fallace dal punto di vista prestativo (obiettivo posto: salute, benessere, dimagrimento, prestazione sportiva …), risulta essere controproducente (aumenta il rischio di infortuni, il rischio di un abbassamento delle difese immunitarie, di una sovrastimolazione neuroendocrina, con successivo effetto rimbalzo …) e, quindi, nella migliore delle ipotesi, portare ad un abbandono dell’attività stessa.
Copiare le tabelle di allenamento “dei campioni” in rete o sulle riviste è, forse, ancora peggio.
L’ideale è rivolgersi sempre a personale qualificato, che previa una valutazione delle condizioni di partenza, costruisce un programma personalizzato atto, in primis, ad ottenere un miglioramento della fitness personale (in poche parole dei parametri generali di salute legati al movimento) e successivamente ad inseguire e, possibilmente raggiungere, gli obiettivi richiesti dall’utente in questione.
Verissimo che muoversi è facile, ma non è la stessa cosa che muoversi in maniera ottimale.
L’allenamento è molto più di quel che sembra.
Se non volete fare la fine del nostro amico ciclista …
Palestra Stile Libero – preparazione fisica a 360°.
SL.A.
P.S.: ovviamente il titolo è preso da qui: https://www.youtube.com/watch?v=ERkho8bNNrg un lavaggio del cervello mediatico che da anni mi perseguita!
Le immagini sono tratte da:
www.tripofferte.com
rikynova.blogspot.com
www.triesteallnews.it

domenica 14 agosto 2016

Doping, Latte e Cioccolato


DOPING, LATTE E CIOCCOLATO
“it’s not the end of the world, my dog will still lick my face whether I win or lose; non è la fine del mondo, il mio cane continuerà a leccare il mio volto, sia che vinca sia che perda”. Matt Biondi (dopo aver perso il titolo olimpico a Barcellona ’92).
Questo è lo sport in cui credo: massimo impegno e massima serenità, forza fisica accompagnata da forza mentale, un progredire non solo come atleti, ma come uomini.
Siamo inevitabilmente un popolo di tifosi. Bisogna schierarsi, sempre, senza mezze misure, senza essere informati, senza nemmeno sapere di cosa si sta parlando, in fondo anche un romanzo fantasy di un paio di millenni fa, poneva la scelta lasciata al pubblico come elemento centrale: “Gesù o Barabba?”.
Credo che faccia parte, quindi, della nostra cultura: passiamo elegantemente dal sapere tutto sui vaccini o sui rischi tumorali legati a un tipo o un altro di alimentazione, fino a immedesimarci anima e corpo in una squadra sportiva “abbiamo vinto!”, per giungere alle recentissime sparate da opinion leader sul doping, sul suo utilizzo, sbraitando sentenze e incensando innocenti e colpevoli senza alcun ritegno.
Mai uno straccio di documentazione, di ricerca, di informazione approfondita; parecchie banalità e luoghi comuni. Il sottofondo della peggior anticultura social.


“Io di latte ne capisco!” pausa ad effetto “E anche di cioccolato”.
Lo stesso accento dei doppiatori di Hitler nei film sul nazismo, una morsicata minuscola e schifata al “gustosissimo” Pinguì della Kinder, aria bonaria, camicia a quadri e consumata esperienza contadina nel travasare (inutilmente?) il latte da un contenitore a un altro.
Sembra strano, ma se penso ad Alex Schwazer, mi viene in mente prima di tutto questo spot, prima dei successi sportivi, prima della fidanzata cessa, prima dello scandalo doping.


Doping, parola usata e abusata; cosa significa veramente? Diamo un’occhiata a etimologia e significato e, vediamo di fare un po’ di chiarezza (fonti: www.wikipedia.org ; http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/ ).
Doping: Sono varie le possibili origini della parola doping. Una di queste è il lemma dop, bevanda alcolica usata come stimolante nelle danze cerimoniali nel XVIII secolo del sud dell'Africa. Un'altra è che il termine derivi dalla parola olandese doops (una salsa densa) che entrò nello slang americano per indicare la bevanda con la quale i rapinatori drogavano le loro vittime mescolando tabacco e semi della Datura stramonium, o stramonio, che contiene alcuni alcaloidi del tropano, causando sedazione, allucinazioni e confusione mentale. Fino al 1889 la parola dope era usata relativamente alla preparazione di un prodotto viscoso e denso di oppio da fumare e durante gli anni novanta del XIX secolo allargò il proprio significato ad indicare qualsiasi sostanza narcotico-stupefacente. Nel XX secolo “dope” veniva anche riferito alla preparazione di droghe destinate a migliorare la prestazione dei cavalli da corsa.Il significato più comune è: Illecita assunzione o somministrazione ad atleti o ad animali di sostanze eccitanti o anabolizzanti che migliorano artificialmente le prestazioni in gara.
Proviamo, usando le stesse fonti a definire anche la parola sport: l'insieme delle attività, individuali o collettive, che impegnano e sviluppano determinate capacità psicomotorie, svolte anche a fini ricreativi o salutari; ogni attività fisica praticata secondo precise regole, spesso in competizione con altri.
Interessante l’etimologia: Il termine sport è l'abbreviazione della parola inglese disport che significa divertimento. La parola disport deriva dalla parola antica francese desport che ha lo stesso significato. La parola francese antica desport deriva dal latino deportare, composizione della parola de, che significa allontanamento, e portare, proprio del suo significato. Quindi deportare significa portarsi lontano, e questo portarsi lontano stava a significare uscire fuori porta dalle mura cittadine per svolgere attività fisiche. Le parole desport e disport poi divenuto sport, come detto significano divertimento, parola che deriva dal verbo latino divertere che significa allontanarsi.
Difficile equivocare. Sport e doping nella stessa frase non dovrebbero nemmeno starci o forse, visto il contorto animo umano, sono facce della stessa medaglia.


Siccome non mi appartengono i facili schieramenti dettati da immediate reazioni emotive, probabilmente è un mio difetto, pazienza, uno dei tanti, difficilmente mi accontento delle spiegazioni mediatiche, preferisco scavare ed approfondire (Dig On) un po’ su ogni argomento di discussione che stuzzichi il mio intelletto; le eburnee certezze hastag mediate (#iostocon …) o le forcaiole esclamazioni salvini mutuate: radiato a vita! Vai a zappare! Ruspa! (ha sempre il suo fascino), buttate lì a caso, tanto per prendere qualche like social, mi fanno un po’ ridere. Un po’ tanto ridere. Anche in quest’occasione, quindi, la mia analisi nasconde un ragionamento cerebro/mediato che, tanto per cambiare, racconto sotto forma di una storia, così avete anche la scusa per non leggere.


Conobbi il doping nel 1988. Seconda superiore credo, in precedenza ne avevo sentito parlare un po’ così, nei discorsi “da bar” e in “Rocky IV”, quando viene praticata l’iniezione a Ivan Drago; in quell’anno, invece, si palesò alla mia conoscenza con un nome e un cognome destinati a diventare storia. Ben Johnson.


C’erano le Olimpiadi a Seoul, Corea, le Olimpiadi di Gelindo Bordin, ma soprattutto di Giovanni “Flash” Parisi, forse il mio primo vero idolo sportivo, il cui ricordo mi commuove tuttora.
L’atletica, come sempre, ha un fascino particolare, le finali emozionano, soprattutto quelle delle discipline veloci. Ci sono i 100 metri.
Gli atleti sono fermi sui blocchi di partenza; mi colpisce quell’uomo al centro della pista, un ammasso di muscoli, un cubo di cemento con un chilogrammo di collana d’oro al collo, nomen omen Ben, come Ben Grimm, “La Cosa” dei Fantastici Quattro; noto la posizione delle braccia, appoggiate troppo larghe sulla linea di partenza, i piedi messi stranamente, quasi affiancati l’uno all’altro, la testa alta, gli occhi vuoti. Vuoti e gialli … quel volto mi rimarrà impresso anche nei momenti a seguire, quando con uno scatto inumano, salterà come una belva sul tartan coreano per andarsi a prendere un titolo Olimpico con un tempo da record del mondo che sarebbe da medaglia ancora oggi.

 

Ovviamente tre giorni dopo l’annuncio della positività a una sfilza di ormoni, titolo e record cancellati. Atleta cancellato. Poco importa se tutti gli altri finalisti prima o dopo abbiano avuto guai con la “giustizia sportiva”, poco importa se, una volta scontata la squalifica, il vecchio Ben si ripresenta goffo e lento sulle piste e viene ri-squalificato, a vita questa volta, poco importa se, pur esibendo documenti e testimonianze di un possibile “Golpe” nei suoi confronti, tenta una improbabile, quanto infruttuosa difesa. Era colpevole e doveva pagare.
Nessuno “è stato” con Ben.
A me era simpatico.
Il secondo tete-a-tete con il doping lo ebbi, invece, in quinta superiore, è stato un episodio così, sul momento non mi ha scosso, ci ho ripensato però, spesso in seguito. Ricordo il vanto del professore di chimica analitica strumentale (non ricordo il nome preciso della materia) quando raccontò come “Il Cannibale”Eddy Merckx fu trovato positivo durante il Giro d’Italia, nella tappa con arrivo a Savona, proprio nei laboratori dove stavamo lavorando noi. Siccome la vicenda è curiosa, invito ad approfondire, per esempio qui: http://archiviostorico.gazzetta.it/1999/giugno/06/Merckx_positivo_cacciato_dal_Giro_ga_0_9906069133.shtml?refresh_ce-cp . Erano in parecchi, e parecchio importanti a “stareconEddy”.


Comincia in me, probabilmente solo nel profondo, ancora non me ne accorgo, un cambiamento di scenario per quel che riguarda il mio rapporto con lo sport “professionistico”, mi appassiona, ma con distacco, diciamo così. Diciamo una sorta di nuova consapevolezza.
Alcuni anni dopo, in una stranamente serena giornata, in un famoso campo di atletica, in una importante città del nord Italia, un gruppo di ragazzi sta macinando qualche giro di pista per riscaldamento.
Sono studenti dell’ISEF durante la pratica della materia “Teoria, Tecnica e Didattica dell’Atletica Leggera”. Nella pedana dei lanci si sta allenando Diego Fortuna, primatista italiano del lancio del disco, una montagna umana, mentre nella pista chiusa prova le partenze un piccoletto dalle cosce enormi, non ricordo il nome, ma è primatista italiano sui 60 metri piani.
Preambolo solo per far capire la qualità dell’ambiente.
Chissà per quale motivo, ma i ragazzi e il loro docente (di cui non faccio il nome), tecnico federale (credo che avesse anche le mutande loggate Fidal) parlano di doping. “Ma voi credete ancora che esista sport di alto livello pulito?” piccolo terremoto sotto i piedi, “gli atleti sanno come e quando farsi e come eludere i controlli” grande terremoto sotto i piedi. Di quella mattinata non ricordo null’altro.
Mi suona in testa una frase, motto di qualche team di lottatori americani: “più duro è il contatto, maggiore è la consapevolezza”. Eh già. Continuo ad acquistare consapevolezza.


Intanto, in quello stesso periodo c’è un certo Marco Pantani a infiammare le calde estati sportive italiane. Le sue imprese sportive, così come quelle private (?!), diventano leggenda. E mai come in questo caso la parola leggenda assume un significato particolare.
Quasi parallelamente al “Pirata di Cesenatico”, su cui torneremo a breve, esplode un altro fenomeno, Il Fenomeno, “Le Roi Americain” chiamato così e amato/odiato dai francesi per aver devastato la corsa a tappe più dura al mondo, il Tour de France, per 7 volte di fila: Lance Armstrong.


Mi innamoro della sua figura, il cow boy, dal passato difficile, abbandonato dal padre, picchiato dal patrigno, trova nello sport, il triathlon, un’ancora di salvezza; il passaggio alla bici e, giovanissimo, diventa campione del mondo di ciclismo con una corsa sconsiderata e folle, si ammala di tumore e rischia la pelle. Anche se devastato dalle cure (un bell’ossimoro), ritorna in bici e … vince. Stravince. Come non lasciarsi coinvolgere?


Il best seller “It’s not about the bike” commuove e stravolge le coscienze facendo leva sui punti deboli dell’animo umano, coinvolgimento emotivo per la vicenda umana, trasporto emozionale per le imprese sportive.
Diventa personaggio pubblico, una macchina da soldi, ricchissimo, ha una fondazione per finanziare la ricerca sul cancro e aiutare i malati (www.livestrong.org ), amicizie politiche equivoche (gioca a golf con la famiglia Bush), parla e tutti tacciono, tutti ascoltano. Lo accusano di doping, ma non viene mai trovato positivo. Si ritira e poi ritorna a correre, ma ormai è nel centro del mirino. Si scava sempre più prepotentemente nel suo passato; poco per volta viene condotto con le spalle al muro. Confessa. “Si, ho fatto uso di doping” (senza piangere, dignitoso, forse consapevole di ammettere ciò che era normale). Gli vengono “tolti” i 7 Tour. Poco importa se non saranno poi assegnati a nessuno perché anche tutti gli altri classificati tra i primi hanno avuto squalifiche per doping, poco importa se ad accusarlo violentemente sono soprattutto suoi ex compagni di squadra, squalificati a loro volta per doping. Lance è colpevole e deve pagare, forse più salato di qualunque altro atleta, ma deve pagare. Nessuno, o almeno pochissimi “stanno con” Lance.



Di cosa stiamo parlando? Di sport? Uhm, non credo. Almeno, non credo a questo tipo di sport.
Il termine sport perde sempre più il  significato di divertimento, per abbracciare con forza quello di “portarsi lontano”, distante da quell’ancestrale piacere del movimento, da quel “sia che vinca, sia che perda” così normale, ma così profondo.
Torniamo a Pantani che nel frattempo si toglie la vita. Non entro nel merito della vicenda, enorme dispiacere per un ragazzo poco più vecchio di me. Non sono mai stato un suo grande tifoso, mi esaltavano le sue sgroppate fiammeggianti, ma non posso dire di aver parteggiato per lui.
La storia di Marco Pantani è, però, quella dei suoi tifosi, per i quali (e, a mente fredda, direi anche per me) da subito è stato vittima di un grande complotto (mafia delle scommesse, in primis) e offerta sacrificale per salvare un sistema corrotto fino al midollo. Ricordo che anche Marco Pantani non è mai stato trovato positivo.
In quel periodo, però, c’è un altro corridore italiano (gregario di Pantani) che subisce vicende simili (incredibilmente simili) a quelle del più famoso Pirata.
Valentino Fois: “prendevo quello che prendevano tutti, chi nega è un bugiardo” (G. e P. Viberti – L’ultimo Avversario – Società editrice Internazionale Torino – 2008). “prendevo prodotti per migliorare il mio rendimento, come più o meno facevano tutti gli altri ciclisti professionisti” ammette Valentino “il mondo del ciclismo era una schifezza”. “Gestivano tutto i medici e i direttori sportivi”. Sei mesi dopo questa intervista, avvenuta a fine carriera, dopo la squalifica per doping, la vita di Valentino Fois termina misteriosamente nella sua camera da letto, forse stroncato da un infarto. Aveva 35 anni.


Nessuno è stato con Valentino.
“Bestie da Vittoria – Piemme 2016 – Autore Danilo di Luca”. Un libro che ho letto in un pomeriggio. Il “Killer di Spoltore”, ciclista professionista di altissimo livello, pluri-squalificato per doping, in un’analisi lucidissima e terribile sul mondo dello sport (ovviamente del ciclismo, ma per estensione dello sport professionistico) e sul doping di stato che, erroneamente, abbiamo sempre attribuito agli atleti dell’est Europa, quando invece è “Cosa Nostra”. Nemmeno a sottolineare, come nessuno “sia stato” con Danilo.


“Più duro è il contatto, maggiore è la consapevolezza”, ricordate? Il distacco con cui ammiro le gare sportive è pressoché totale. L’ammirazione è profonda, il coinvolgimento emotivo, minimo. Lo sport professionistico o, in senso più lato, di altissimo livello, lo considero un qualcosa che esula dalla mia comprensione, mi perdo, senza fiato, a guardare questi uomini (uomini e donne, ovviamente), questi iper-umani, macchine perfette, che, forse anche giustamente, non sono in grado di dirlo, si “alimentano” con carburanti speciali; non è sport, almeno quello che io intendo per sport, è qualcosa di diverso e che quindi diversamente deve essere trattato.
Veniamo alla cronaca.
Il caso Schwazer non è né più, né meno, una lineare continuazione di quelli che l’hanno preceduto.
Chi è il personaggio in questione? Atleta italiano, specializzato nella marcia, già campione Olimpico a Pechino, nel 2008.
Carabiniere (da definizione, doparsi è una pratica illegale) oltre che contadino, come vedevamo negli spot Kinder, come quasi tutti gli atleti beccati positivi, ha giurato di non averlo mai fatto, per poi ritrattare; la sua fidanzata, pattinatrice famosa, squalificata con lui perché lo copriva durante le sue assenze ai controlli a sorpresa.
Alex si faceva di EPO (eritropoietina) ricombinante, un ormone che in clinica si usa principalmente per curare le anemie dei pazienti in emodialisi e sui pazienti con insufficienza renale cronica, e nella cura dell’anemia per insufficienza cardiaca, dell’anemia neonatale e nelle anemie causate da patologie tumorali www.albanesi.it www.wikipedia.org www.corriere.it ).
Schwazer sconta la sua pena, nel frattempo viene congedato dai carabinieri e dalla Ferrero (addio feroci morsicate di Pinguì e travasi di latte). Nessuno sta con Alex, e forse è anche giusto così, anche se la speranza che rientri in forma per le Olimpiadi di Rio è forte.
Il casino scoppia qui: durante la squalifica il campione altoatesino entra in rapporto collaborativo stretto con Sandro Donati, persona seria e con una forte morale, allenatore di atletica prestigioso, ex membro della WADA (agenzia anti doping) e del centro sperimentazione e ricerche del CONI. Soprattutto persona onesta (https://it.wikipedia.org/wiki/Sandro_Donati ). Da questo punto in poi non si capisce più nulla, salta fuori un’altra positività, ma la vicenda è quantomeno strana, con ampi spazi nebulosi; ricorsi e contro ricorsi non portano a nulla, se non ad un’ulteriore squalifica per il nostro e, quindi, addio Olimpiadi.
Si sbraita ad un nuovo caso Pantani (e tutti gli altri?), esce in rete l’hastag #iostoconalex, che subito diventa virale, anche tra chi non ha capito un cazzo (forse è più importante far parte di qualcosa, che capire veramente di cosa si vuole fare parte). Gli italiani, da economisti dopo Brexit, a C.T. dopo gli Europei di calcio, a intelligence anti-terrorismo dopo gli attentati, ovviamente in un attimo diventano: chi biochimici che sanno tutto su emivita dei campioni e alterazione degli stessi, chi complottisti che, tra una scia chimica e l’altra, cercano di sgominare l’agguato al povero Alex. Ah, non dimentichiamo i soliti fatalisti: “si è fatto ribeccare, che coglione”. Loro si che la sanno lunga.
Ecco, torniamo seri.
Il doping esiste, inutile negarlo, endemico e capillare. Ogni tanto qualcuno viene trovato positivo, spesso paga il suo debito e molto spesso ritorna a gareggiare. Probabile che alcuni degli effetti dei medicinali assunti permangano anche a distanza di tempo (massa muscolare, capacità aerobica …), ma non mi interessa. Probabile anche che, una volta riabilitati, tornino a farsi, non tanto per debolezza o poco carattere, queste sono scuse finte come il sorriso di un’atleta di nuoto sincronizzato durante la performance, ma perché è ciò che richiede il “sistema”, intendendo società, Federazioni, Comitati.
Non esiste un caso Schwazer, non può esistere un #iostoconalex, anche se è piuttosto facile schierarsi, perché Alex Schwazer ha scelto anni fa la sua strada, quando ha deciso di diventare atleta professionista, sobbarcandosi tutti gli onori, ma anche tutti i terribili oneri, che vanno ben oltre un po’ di popolarità e qualche paparazzo. Si entra a far parte di un loop infernale, dove l’uomo perde di valore e diventa stregua di una macchina. Una macchina da soldi, da prestigio, da potere.
La sporcizia, profonda, macchia indelebilmente un mondo luccicante, ma poco prezioso, pirite che annebbia e ottenebra i sensi, cercando di sostituire l’umana coscienza.
Si, a rileggerlo, fa un po’ paura.
Che poi sei in palestra “ma per diventare grosso, cosa posso prendere?”. Questo è ciò che passa, a livello mediatico. Gatlin enorme, squalificato, riammesso, corre, vince, fisico della madonna. Il confine tra preparazione biologica e doping, a questo punto diventa sottilissimo. Anche questo fa paura.


Quello che mi auguro? Un cambio di paradigma. Nel mio piccolo cerco di fare pensare, di insegnare a non trarre conclusioni causa-effetto, che non esistono quasi mai, ma usare il ragionamento affinando un collaudato meccanismo cerebrale ed impreziosendolo con l’istinto primate. Cerco di educare, nel senso profondo di e-ducere, condurre fuori da un meccanismo malato, del quale non voglio assolutamente essere complice. Si torna sempre lì, a quel “fotti il sistema, STUDIA”.


Sono qui seduto, con il pc sulle gambe e le Olimpiadi in tv. Vedo “mostri” bellissimi correre cento metri a velocità supersonica; rimango un attimo estasiato, quasi come guardassi una gara fra automi. Vorrei, solo per un secondo, entrare nelle loro teste, sia in quelle delle vincitrici sia in quelle delle sconfitte. Cosa pensano? Cosa provano?
Un ultimo pensiero, questo polemico, corre verso un mio amico, che più di vent’anni fa girava per Varigotti con mezza barba fatta e mezza incolta. Non si stupisce nessuno se dico come fosse additato da coglione. Ebbene, alla stessa stregua considero il fascinoso saltatore in alto che tanto sbandiera la sua mezza barba e tanta merda sta sparando su atleti come lui: primo, la mezza barba la portava con più stile Yuri, secondo, a me risulta molto più sospetto un infortunio da parte del favorito ad un mese dalle Olimpiadi, in una gara già vinta, provando un salto rischioso ed inutile, che tutte le provette più o meno manomesse da parte dei Nas al povero Schwazer. Chiudi la bocca, per favore.


Finisce qui la storia. E come tutte le storie che si rispettino, le diamo un lieto fine grazie al pensiero di uno dei più grandi atleti della storia, il più grande triplista di sempre:
“A volte nel letto, prima di addormentarmi, mi viene da pensare che mi guadagno da vivere facendo dei balzi e atterrando sulla sabbia. Am I doing anything worthwhile? Sto facendo qualcosa di meritevole? Non credo, è l’inutilità assoluta. Quando penso ai medici che vanno in Rwanda mi dico: - They’re making a difference, but I’m jumping into a sandpit, loro fanno qualcosa di speciale, di differente, mentre io salto nella sabbia …-“ J.Edwards.
 
No Dope.
SL.A.
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