LA MIA ORA
D’ORO. L’ALLENAMENTO SCIENTIFICO, LA SUPERCOMPENSAZIONE, LA RICERCA DI UNA
NUOVA VIA
Sono molto legato
ai libri. Ai “miei” libri, quelli che mi hanno formato, educato, cresciuto, che
mi hanno lasciato qualcosa. Non sono mai stato un lettore raffinato,
tutt’altro, ma ho sempre avuto un certo fiuto nello scegliere ciò che poteva
piacermi od interessarmi, spesso l’immagine in copertina, a volte il titolo,
sicuramente l’argomento o il genere trattato, piccoli segni potevano farmi
decidere per un testo piuttosto che un altro e difficilmente sbagliavo. Tutto
sommato, a parte le “manzoniane” crisi dei primi anni delle superiori, possa
vantarmi di essere un buon lettore; qualche pagina posso dire con orgoglio, di
averla girata.
Discorso diverso per
i libri regalatomi. A volte colpivano nel segno, a volte meno. Ho sempre messo
un po’ del mio, ho sempre provato a iniziarli, mi ci sono anche perso, ma non
sempre sono riuscito ad instaurare quell’inevitabile feeling tra scrittore e
lettore, in fondo il gusto “letterario” è veramente un qualcosa di personale,
non ci si può fare nulla.
Però.
Qui il però ha
proprio il significato di congiunzione avversativa, perché, se devo essere
sincero, uno dei libri di cui ho un ricordo più nitido, forse uno di quelli che
ha spinto la mia vita in una determinata dimensione, chi lo sa, mi è stato
regalato.
Non avevo ancora
compiuto 11 anni, il 1984 era iniziato con un’impresa sportiva eccezionale,
soprattutto per gli amanti del ciclismo. Un atleta italiano quasi a fine carriera,
aveva detronizzato un record che resisteva da tempo, un record saldamente in
mano ad un mito non solo del ciclismo, ma dello sport in generale, Eddy Merckx.
Francesco Moser da
Palù di Giovo (TN) aveva detronizzato il record dell’ora disintegrando il muro
dei 50 km ed aprendo un’altra pagina nella storia dell’allenamento sportivo. Eh
si, perché quell’impresa è stata figlia, oltre che del talento smisurato del
Checco nazionale, di una sinergia con un gruppo di medici, biologi,
nutrizionisti e preparatori atletici, l’Equipe Enervit. Si spalancava, anche
nel nostro paese, l’approccio scientifico all’allenamento.
Ecco, io tutto
sommato me ne fregavo. Ero contento per il successo di Moser, perché in casa
mia si tifava per lui (era l’epoca dei dualismi, e quello Moser-Saronni ha
infiammato la mia infanzia), mi piaceva il ciclismo, ma non era il mio sport
preferito, non sapevo nulla di allenamento, di alimentazione sportiva, di
scientificità.
Mi affacciavo
alle scuole medie con l’apparecchio fisso ai denti, e quello, per me, era già
abbastanza.
Però.
Ricordo quel
giorno che mio padre entrò in casa con quel libro sottobraccio. Probabilmente
era passato qualche mese dall’impresa del corridore trentino ma, complice anche
la vittoria al Giro d’Italia, si parlava ancora di Moser e del suo “misterioso”
entourage di preparatori. Il titolo non lasciava scampo a nessun dubbio:
“MOSER: LA MIA ORA D’ORO – la leggendaria impresa di Città del Messico
nell’appassionante racconto del campione”; tra i vari capitoli spiccava un
curioso: “I retroscena segreti dell’exploit, la verità sull’intervento della
scienza”. Non so bene il perché, mi tuffai su quel volumetto (numero unico 6500
lire, bei tempi), lo divorai, l’ho letto e riletto decine di volte, di più, in
trent’anni sicuramente l'ho aperto centinaia di volte, trovando sempre qualche
spunto di riflessione, qualche curiosità, qualche dato che il tempo ha
clamorosamente smentito o pomposamente confermato, qualche studioso caduto in
disgrazia (non voglio entrare qui sul “Team Conconi” e la scuola
dell’università di Ferrara, sul doping ematico e cose del genere), qualcun
altro che invece ha, di diritto, fatto la storia (il compianto Enrico Arcelli,
scomparso proprio recentemente, che ho avuto l’onore di conoscere qualche anno fa
durante un corso).
Chissà cosa
quel libro fece scattare dentro di me, ma senz’altro fu qualcosa che mi colpì
nel profondo, che segnò irrimediabilmente la mia vita. Avevo aperto una delle
mie “Sliding Doors”.
Mi tuffai nello
sport (con gli alti e bassi emotivi che possono caratterizzare i primi anni
dell’adolescenza), ma da quel momento l’attività fisica, specie quella di
resistenza divenne una costante. Se devo trovare un “leitmotiv” che ha
accompagnato quegli anni è senz’altro il movimento fisico. Mi innamorai proprio
dello sport tanto che, dopo un agonizzante peregrinare tra un’università ed
un’altra, mi iscrissi all’ISEF. Che meraviglia. Dovevo fare due cose: sport e
capire perché e come farlo meglio. Ogni materia pratica era una gara, uno
scontro, una partita, il pomeriggio dopo le lezioni ci si vedeva con i miei
colleghi di studio e si faceva allenamento. Nuoto, corsa, pallavolo,
pallacanestro, tutto mi eccitava, era come vivere nel paese dei balocchi.
Venivo valutato per fare la cosa che mi piaceva di più al mondo, muovermi. Il
passo ad innamorarmi anche delle regole (o presunte tali) che stanno alla base
del movimento è stato brevissimo. Più mi muovevo, più volevo capire perché lo
facevo e come fare per muovermi meglio. Se mangiavo qualcosa volevo capire che
effetti poteva avere sul mio corpo e come adoperarmi per migliorare questi
effetti. Ero un laboratorio vivente, ero lo scienziato pazzo e la cavia. Teoria
e pratica. Tanta pratica e tanta teoria. E non esisteva internet, era l’alba
dell’era informatica. Si compravano i libri. Eh già, i libri e tutto ciò che
avevo letto su quello di Moser acquistava un senso, tutto ciò che quelle pagine
di grafici e tabelle volevano spiegare, ora venivano capite. Capite e
criticate. Capite e ammirate. Il passaggio a scienze motorie è quindi un atto
dovuto, una forma di rispetto a quella scienza dello sport che tanto mi
entusiasmava.
La bellezza
della vita (benedizione e maledizione, direi) è la sua imprevedibilità. La
scienza porta con sé il dubbio, i dubbi portano desiderio di ricerca; nuove
“scoperte” portano inevitabilmente a nuovi dubbi, un Uroboro infinito, anzi un
nastro di Moebius dalle molteplici facce. Una rincorsa senza tregua.
Questa
imprevedibilità mi porta, nel tempo, a cercare qualcosa che oltrepassi la
scienza dell’allenamento, non ne prendo le distanze, ma la assimilo nel
concetto più vasto di uomo e di umanità. Mi rendo conto che le spiegazioni date
a grafici e tabelle non mi soddisfano più, che quell’ora d’oro di Moser ha
aperto una porta su di un labirinto di conoscenza che, contrariamente a quello
che pensavo i primi anni di ISEF, non si potrà mai completare. Quindi lo
interpreto, o almeno ci provo. A modo mio. Lo faccio mio. Sono Teseo, ma alla
fine sono anche il Minotauro.
Vediamo allora
di provare a spiegare questa interpretazione.
Uno dei
principi che ha caratterizzato i miei primi studi è quello della
“Supercompensazione”. Il grafico è famosissimo, si trova ovunque si parli di
allenamento, e la teoria che ne sta alla base, pur essendo conosciuta da pochi,
è utilizzata, o meglio, è “raccontata” da tutti.
La
supercompensazione può essere definita come un processo fisico che permette di
sviluppare i necessari adattamenti corporei ai carichi allenanti, in modo da
raggiungere l’effetto ricercato dall’allenamento: come effetto dell’allenamento
non soltanto si recupera il potenziale energetico speso, ma si raggiunge un
potenziale maggiore. Il punto di partenza dell’allenamento successivo sarà
quindi più alto rispetto ai livelli iniziali [1]
Fig.1
Tanti carichi, tanti recuperi ben fatti, tanto incremento
delle capacità lavorative, in sintesi.
Da tutto quanto sopra esposto, si può definire l’allenabilità
come la maggior o minore capacità dell’organismo di tollerare e di adattarsi ai
carichi di lavoro di allenamento, spostando la propria capacità di prestazione
verso il livello più elevato consentito dalle caratteristiche genetiche e dalle
favorevoli condizioni ambientali. [2]
Capite bene che tutto questo, per noi studenti/sportivi
era (ed è tutt’ora, comunque) terribilmente affascinante. Un grafico semplice
ti spiega come poter sistemare gli allenamenti per avere un risultato positivo
nel tempo. L’uovo di Colombo.
Ci sono persone che si accontentano delle risposte
fornite loro, altre, invece, hanno il bisogno di scavare un po’ più a fondo. Ma
questa benedetta “Supercompensazione” da dove viene?
Apriamo una piccola parentesi: la sindrome generale di
adattamento.
Tale denominazione deriva dalla sindrome generale di
adattamento di Hans Seyle secondo cui l’organismo reagirebbe ad uno stimolo
(stress), proveniente sia dall’esterno che dall’interno, per mantenere la sua
omeostasi, attraverso tre fasi successive:
Reazione d’allarme: l’organismo subisce l’azione di shock
dell’agente stressante (nel nostro caso l’allenamento) seguita da una reazione
di aggiustamento immediata (ormonale, respiratoria, cardiovascolare,
metabolica, ecc) nella quale vengono attivate le difese necessarie al fine di
poter reagire o fuggire dalla causa che ha generato stress.
Fase di resistenza: l’organismo aumenta la sua capacità
di resistenza verso il fattore stressante che lo ha colpito, creando una serie
di modificazioni morfo-funzionali che lo preservino da ulteriori stimoli
stressanti; essi vanno sotto il nome di adattamenti e sono specifici per ogni
sport ed è proprio grazie a loro che l’atleta diventerà capace di sostenere
performance migliori.
Fase di esaurimento: l’organismo soccombe agli agenti
stressanti (carichi di allenamento); tale situazione può comparire più o meno
tardivamente, per effetto sommatoria, in rapporto alla capacità di difesa
dell’organismo e all’intensità dello stress; essa si traduce in una stagnazione
delle prestazioni e nelle situazioni più gravi nel loro decadimento con
l’instaurarsi del superallenamento (fatica cronica), sindrome patologica che
debilita fortemente l’atleta rendendolo incapace di recuperare gli stress
dell’allenamento.
Al contrario, se lo stimolo allenante sarà seguito da
adeguate fasi di recupero, si darà origine al fenomeno della
Supercompensazione, dove l’organismo non solo recupererà l’affaticamento subito
dal training, ma lo farà ad un livello superiore, premunendosi da un futuro
stimolo stressante.
Questo porterà l’atleta ad un grado di resistenza
superiore ed alla possibilità di innalzare lo stimolo specifico rispetto a
quello che avevamo utilizzato nell’allenamento precedente a patto che il tempo
intercorso tra le due esercitazioni non sia eccessivo e l’organismo conservi il
“ricordo” dell’esercitazione precedente.
In questo caso, una nuova esposizione al carico più
intensa della precedente, farà aumentare ancora la possibilità di adattamento a
nuovi stimoli allenanti. Avremo così un individuo che per gradi successivi sarà
preparato ad impegni maggiormente gravosi o per intensità del lavoro
(incremento % rispetto al carico massimo) o per quantità del lavoro (per
esempio km in bicicletta).
Gli stimoli allenanti hanno tempi di supercompensazione
diversi, tale dinamica viene definita eterocronismo e la sua conoscenza è
fondamentale per la strutturazione dell’allenamento. Questo tipo di
distribuzione dello stimolo-adattamento dovrà avvenire mediante
un’organizzazione ciclica che garantisca la ripetizione dello stimolo in tempi
utili al fine di sfruttare la supercompensazione [3].
Dunque possiamo dire, riepilogando, che qualunque sia la
causa di uno stress intenso che turba l’organismo, quest’ultimo avrà la
tendenza a reagire con una sequenza preordinata di risposte al fine di
ristabilire l’omeostasi interna. Questi meccanismi non solo non sono nocivi, ma
sono fondamentali per ogni adattamento all’ambiente esterno e quindi alla
prosecuzione della specie e all’evoluzione. Un eccesso di stressors, gli
stimoli stressanti, porterà a un eccesso di stress con i connotati negativi
comunemente conosciuti, mentre una dose adeguata di stimoli stressanti porterà
un adattamento all’ambiente. E’ evidente come questi concetti si possano
applicare perfettamente agli stimoli allenanti.
Se aumentiamo lo stress organico allenante, agendo sulla
durata dell’allenamento o sull’entità del carico, ci vorrà un tempo più lungo,
rispetto ad una seduta standard, affinché l’organismo ripristini le condizioni
iniziali e dia il via alla fase di supercompensazione. In entrambi i casi il
maggiore stress organico prodotto, se seguito dall’opportuno recupero, potrà
determinare un incremento della successiva risposta supecompensativa.
Da ciò si evince come la durata dell’allenamento,
l’entità del sovraccarico, il periodo dedicato al recupero e, di conseguenza,
la frequenza degli allenamenti costituiscano i parametri fondamentali
dell’allenamento e siano strettamente legati tra loro. [4]
Ecco qui che poco per volta il discorso si complica un
po’. Oltre a “Supercompensazione” e al grafico semplice, intervengono altri termini
a far approfondire le nostre ricerche.
Uno di questi termini, fondamentale per comprendere il
processo è quello di adattamento. Secondo [5] si può affermare che
l’adattamento e la capacità di adattamento, che rappresentano i presupposti
perché possa aumentare la capacità di prestazione dell’organismo o di suoi
singoli sistemi parziali, subiscono l’influenza di numerosi fattori. Il
processo di adattamento si manifesta in forme e tipologie diverse ed è limitato
da fattori genetici. I fattori ambientali – ad esempio in forma di stimoli di
allenamento – possono esercitare la loro azione di trasformazione del genotipo
in fenotipo solo entro questi spazi più o meno ampi, specifici di un organo o
di un sistema di organi.
Quindi qui saltano fuori altri fattori che possono
modificare, in positivo od in negativo, il risultato di un processo di
allenamento e quanto detto finora non è in contrasto con quanto già ipotizzava
negli anni ’50 Hans Seyle, riferendosi ad una limitata e particolare energia di
adattamento posseduta, in partenza, da ciascun individuo. Secondo tale teoria
le possibilità di indurre modificazioni stabili delle strutture e delle
funzioni dell’organismo come conseguenza della reiterata somministrazione di
carichi di allenamento non sono infinite, trovano la loro limitazione
fondamentale nel patrimonio genetico di ciascuno. L’allenamento, da questo
punto di vista, può soltanto consentire l’espressione e l’attualizzazione di
attitudini psicofisiche potenzialmente possedute dall’individuo. E’ evidente
che cercare di superare i limiti geneticamente prestabiliti per ciascun
individuo comporta, sempre, l’attivazione di processi di autodifesa da parte
dell’organismo e, nei casi estremi, il cedimento delle strutture interessate
[2].
Stiamo lentamente completando il nostro ragionamento.
Dunque i risultati possibili di un processo di allenamento sono due:
adattamento o disadattamento.
L’allenatore al
termine di un congruo lasso di tempo (macrociclo)
Se la
modulazione dei fattori condizionali è stata equilibrata (volumi e intensità),
Rispettando i
tempi responsivi del soggetto (recuperi),
Integrando i fattori specifici con quelli generali della
disciplina (fattori generali e specifici),
potrà
verificare una reazione adattativa: una crescita della prestazione completa e
stabile in linea nei tempi e modi con le attese.
In caso
contrario l’insuccesso si evidenzierà nelle seguenti manifestazioni:
Reazione
transadattativa: fluttuazioni prestative e stagnazione dei risultati
Reazione
disadattativa: defaillance prestativa e overtraining [6].
Nell’ambito di
questa teoria, sono accettate anche variazioni più sofisticate del piano di
allenamento. Una variazione molto seguita dagli allenatori, quella del
microciclo d’urto (di supercarico) prevede diverse sedute con carico elevato e
intervalli di recupero brevi tra di esse, alternate ad un periodo di riposo
relativamente lungo. Si ritiene che un andamento di questo genere induca una
supercompensazione finale superiore a quella normale. [7]
Il modello
della “Supercompensazione” qui descritto è quello più accreditato da diversi
decenni e, come dicevamo, largamente accettato dagli allenatori. Malgrado la
sua popolarità, però, è necessario un esame critico di questa teoria [7].
Il modello
descritto, possiamo chiamarlo ad “un fattore” (carico/supercompensazione) alla
prova dei fatti si è dimostrato troppo semplicistico in relazione alla
complessità dei fenomeni in oggetto. In particolare sono emerse critiche:
Sulla rilevanza
del meccanismo di supercompensazione, non sempre comprovato da tutti gli indici
biologici (es. la concentrazione di ATP non è modificata da alcun carico
somministrabile) (Verkhoshanskij in [8] a tal proposito, però osserva come ad
intensità molto elevate e immediatamente dopo il lavoro si possa osservare una
fase di “Supercompensazione” di brevissima durata);
Sull’eterocronismo
degli adattamenti (metabolici, strutturali, ecc…), incostanti e quindi
imponderabili nell’individuo stesso in quanto influenzabili da vari fattori;
Sui criteri di
“temporizzazione” degli stimoli, non chiariti e documentati nella loro reale
efficacia.
In questi
ultimi anni sta ottenendo credito la “teoria a due fattori”, forse più
complessa della precedente, ma foriera, almeno concettualmente, di un maggior
controllo del processo allenante. La forma (preparedness), potenziale specifico
dell’atleta, è variabile nel tempo in funzione di due elementi. Il primo è la
condizione fisica (fitness), stato stabile, lentamente modificabile; il
secondo, fast-changing, è dato dal grado di perturbazione (fatigue) prodotto
non solo dal carico allenante, ma anche dall’esito degli stress psicologici,
dagli stati patologici non evidenti (anemia, infezioni latenti …). L’effetto di
una seduta allenante sarebbe la somma algebrica, istante per istante, della
fitness e fatigue prodotti. Approssimando, si è constatato che lo stato di
fatica perdura per 1/3 del tempo di guadagno della condizione; quindi se la
stanchezza in conseguenza di un carico si manifesta per 24 ore, l’effetto
positivo dello stesso si protrarrà per 72 ore [6].
Semplificando:
Secondo il modello a due fattori, gli effetti immediati successivi a una
sessione di allenamento rappresentano la combinazione di due processi:
·
Un
miglioramento della fitness indotto dalla sessione stessa;
·
La fatica.
Al termine
della sessione, lo stato di preparazione dell’atleta:
Aumenta grazie
al miglioramento della fitness;
Peggiora a
causa della fatica.
Il risultato
finale è dato dalla somma delle modificazioni positive e negative.
In base alla
teoria dell’allenamento a due fattori, la durata degli intervalli tra sessioni
di allenamento consecutive deve essere stabilita, in modo tale che tutte le
tracce degli effetti negativi della sessione precedente siano sparite, pur
mantenendo gli effetti positivi del miglioramento della condizione fisica.
Questo modello è diventato abbastanza popolare tra gli allenatori, che lo
seguono principalmente per programmare l’allenamento negli ultimi giorni di una
gara. [7].
Fig.2
Quindi, siamo
partiti dalla “Sindrome Generale di Adattamento” di Hanse Seyle per arrivare
alla teoria della “Supercompensazione”. Come ci siamo riusciti?
Facciamo un
passo indietro.
[8] ci ricorda
come il processo di “Supercompensazione” venne definito da Jakovlev negli anni
’50, stabilendo che il contenuto di glicogeno diminuito dopo il lavoro, durante
il periodo di riposo, non solo aumenta fino a raggiungere il livello iniziale,
ma addirittura lo supera (principio di Enghel’gard).
Fig.3
1:
Utilizzazione; 2: Ripristino; 3: Supercompensazione; 4: Ritorno (ad onde) al
livello iniziale
Quindi il buon
Jakovlev non è proprio il primo che si occupa di questo processo, anzi, per
essere precisi, il fenomeno della supercompensazione è stato studiato, per la
prima volta, ancora nel XVII secolo, dal patologo tedesco Weigert (infatti
alcuni testi definiscono il fenomeno della supercompensazione come “Legge di
Weigert”, ad esempio [1]). I suoi studi in tal senso erano diretti sul
meccanismo di cicatrizzazione delle ferite, egli stabilì come durante la
guarigione il tessuto danneggiato venga rigenerato in eccesso, poi si verifica
lo sviluppo del tessuto di granulazione che, successivamente, subisce un’involuzione
[8]. In un libro del 1905 “Organismi patogeni compresi batteri e protozoi”
viene citato il termine Supercompensazione con chiara attribuzione a Weigert e
alla sua legge [9].
Anche I.Pavlov,
Nobel per la medicina, conferma la legge di Weigert studiando la funzione delle
ghiandole salivari e stabilendo che , durante la secrezione attiva della
saliva, le ghiandole perdono una parte dei composti azotati. Quando l’attività
delle ghiandole cessa, il contenuto dei nitrati viene ripristinato in eccesso
e, successivamente, ritorna al livello normale [8].
Negli anni ‘30
del novecento altri studiosi confermarono la bontà della “visione” di Weigert,
i lavori di Yu.Fol’bort condotti sull’attività cardiaca e, specialmente, quelli
del biochimico sovietico V. Enghel’gard che formulò il principio secondo il
quale: “il processo primario della disintegrazione provoca o potenzia sempre la
reazione responsabile della resintesi”; questo principio venne ripreso una
trentina di anni dopo anche dal neurofisiologo P. Anochin che affermò: “ … nei
biosistemi con funzionamento normale, i processi di recupero sono sempre
potenzialmente più intensi e superano i processi di disgregazione” [8].
Jakovlev ha
quindi trasferito questi concetti al mondo dell’allenamento dimostrando che il
meccanismo della Supercompensazione è corretto anche per creatinfosfato,
proteine enzimatiche e strutturali, fosfolipidi, quantità di mitocondri nelle
fibre muscolari [8].
Ricapitolando
vediamo come la legge della Supercompensazione non sia legata solamente al
mondo dell’allenamento, anzi, abbiamo visto come sia stata quasi una “forzatura”,
passatemi il termine, il suo trasferimento alle discussioni in tale ambito. Il
nostro corpo lotta per mantenere il suo equilibrio interno e il meccanismo
Supercompensatorio è una manifestazione di come il corpo stesso si organizzi,
attui dei cambiamenti, si metta in gioco pur di mantenere questo equilibrio
[9].
Questo
equilibrio interno non è dunque fisso e costante, ma può variare dentro un
certo intervallo di valori, un forchetta più o meno ampia che può permettere al
corpo di esplicare la sua capacità migliore, quella di adattarsi. A tal
proposito interessante vedere come la tendenza del corpo al suo mantenimento
dell’equilibrio interno, nonostante i numerosi attacchi provenienti dall’esterno,
venga definita Omeostasi e cioè “similmente stabile”, quindi non identico di
volta in volta, ma “adattato” all’interno di un range di valori diciamo
tollerati dall’organismo (un esempio? La temperatura interna del corpo che,
entro certi limiti, appunto, rimane in omeostasi sia che la temperatura esterna
sia di 35° che di 5°).
Risulta
evidente come con queste premesse, la GAS, Sindrome Generale di Adattamento di
Hans Seyle ci stia proprio a pennello. Il merito che noi allenatori,
preparatori atletici e studiosi dello sport possiamo attribuire alla GAS è
quello di aver fornito un modello unico dell’adattamento dell’organismo alla
varietà di stimoli che un allenamento può fornire: anaerobici, aerobici,
lattacidi, alattacidi, continui, intervallati, conglobando in un’unica
definizione il concetto di Supercompensazione di Weigert e il concetto (ai
tempi di Seyle ancora inesistente, ma di futura definizione) di sovrallenamento
[9]. Quindi a questo punto, siamo ormai negli anni sessanta, inglobare tutte
queste teorie nel “calderone” dell’allenamento è cosa fatta, il fenomeno della
Supercompensazione e la GAS diventano chiave di lettura della preparazione
atletica di alta qualificazione e, nel tempo, fondamenta per tutta la teoria
dell’allenamento (“La supercompensazione rappresenta il fenomeno basilare per
il miglioramento funzionale e di prestazione [10]).
Prima di dire
la mia opinione in merito a tutto ciò, vorrei sottolineare come, comunque,
negli anni, la teoria della Supercompensazione sia stata oggetto di critiche. Alcune
le abbiamo già presentate prima, altre non meno importanti vengono portate da
[8], quando pur evidenziando come il fenomeno in questione sia espressione
della legge fondamentale della sopravvivenza, dell’adattamento alle condizioni
di vita e del miglioramento funzionale di tutti gli esseri viventi, esso, anzi,
la sua “letterale” interpretazione, nel campo dell’allenamento ha portato a due
grandi errori fatali; il primo nell’aumento del volume del carico di
allenamento (più è meglio; per batter l’avversario devi allenarti più di lui),
il secondo, diretta conseguenza di questo, volumi di allenamento enormi,
esasperati che hanno cominciato a superare le possibilità dell’organismo umano.
Il primo errore porta all’esaurimento delle funzioni dei sistemi endocrini dell’organismo
(sovrallenamento e traumi) e all’utilizzazione poco efficace dell’energia degli
atleti; il secondo porta all’utilizzo (lecito od illecito) di “procedure per il
recupero” che, nella migliore delle ipotesi, eliminano le tracce biochimiche
dell’effetto allenante del carico, alterano lo sviluppo delle biosintesi di
riparazione ed eliminano l’azione di induzione dei metaboliti che determinano,
in modo specifico, la biosintesi post-lavorativa.
Altre critiche
importanti [11] vengono riferite al fatto che la Supercompensazione rappresenta
un semplice schema “stimolo-reazione”, quindi il carico sportivo viene
organizzato esclusivamente attraverso la manipolazione dosata della variabile
di ingresso carico allenante. Secondo alcuni autori allo stato attuale delle
nostre conoscenze quello che meglio corrisponde alla realtà dell’allenamento è
un modello a più fasi dell’adattamento; il corpo umano possiede diversi stati
funzionali che possono assicurare la prestazione se modificati in senso adattativo (sistema
endocrino, sistema nervoso, cardiocircolatorio, immunitario, metabolismo
energetico …) ed in tal senso, quindi, deve organizzarsi il processo allenante
[11 – 9].
Anche in [12] i
concetti che vengono messi sotto la lente della critica sono grossomodo gli
stessi, ponendo l’accento sul fatto che trattando il fenomeno della
Supercompensazione non si prende in considerazione ciò che succede nell’organismo,
ma soltanto quello che viene svolto come allenamento (input) e di come cambia
la prestazione dell’atleta (output), considerando l’organismo, quindi, come una
scatola chiusa.
Come mi muovo
io in tutto questo? Come la “mia ora d’oro” diventa “la ricerca di una nuova
via?”.
Assimilare
questi concetti non è senz’altro cosa facile; la genialità del grafico della
Supercompensazione sta nel semplificare all’ennesima potenza un concetto
estremamente complicato. Ma questa è anche la sua debolezza, perché se in
generale il fenomeno in questo modo si può comprendere con immediatezza, lascia
al palo parecchi interrogativi (almeno in chi se li vuole porre). Anche le
critiche più o meno varie non affrontano
nello specifico quello che, a mio avviso, è il problema principale:
L’uomo. Il vero
e proprio concetto di uomo, con tutte le sue problematiche, con tutto quello
che gli gravita intorno, con tutte le energie e vibrazioni che lo nutrono (o lo
indeboliscono), con la mente che può renderlo invincibile o può renderlo un
rottame. Guardando Iron Cowboy James (http://www.ironcowboy.co/#home
) mi chiedo: e questo come Supercompensa? Utilizzerà le teoria ad un fattore? A
due fattori? A più stadi? Uno che conclude 50 Triathlon IronMan (3800 m nuoto –
180 km bici – 42,195 km corsa), in 50 giorni di fila, in 50 stati diversi, come
e dove si inserisce in tutti questi grafici? Capisco che ogni prestazione non
sarà sicuramente stata eseguita al massimo possibile dell’atleta, ma nel suo
complesso, la performance globale è, non saprei definirla, boh, fate voi, per
me è impressionante, devastante, tutto ciò che vi viene in mente con suffisso –ante.
E le imprese di Dean Karnazes, quelle di Kilian, quelle di Marco Olmo o quelle
di Bruno Brunod? Quelle del “Lupo” Ghidoni? Ma questi Supercompensano? E poi mi
perdo a guardare l’atletica leggera in tv. Penso sia lo sport (insieme al
nuoto) che mi piace di più guardare. Mi appassiono veramente. In questi giorni
ci sono i mondiali a Pechino; grandi atleti e grandi prestazioni. La scuola
italiana, fondata sulla teoria dell’allenamento più classica, posata sulle
solide e inappuntabili fondamenta della fidal, cresciuta a pane e
Supercompensazione, ha portato una squadra di relitti scoppiati (e lo dico con
il massimo rispetto veramente per grandi atleti con grande passione, ma quello
è, non si può dire altro) che non sono andati a medaglia, ma che dico, non
hanno passato nemmeno un turno (o poco più). E questi hanno Supercompensato?
Allora forse c’è
di più, o forse c’è qualcosa di diverso. E io sono terribilmente attratto da
quel qualcosa in più e, soprattutto da quel qualcosa di diverso.
Ho sempre
odiato il concetto della percentuale. Utile, importante, ma il pensiero di
essere ingabbiato in un dato (% appunto) mi ha sempre infastidito. Il mondo
dell’allenamento è fatto di percentuali, anche i concetti finora esposti si
basano su quelle: ti alleni al 70% del massimale, corri al 65% del VO2 max …
ovviamente, per lo stesso motivo, patisco un po’ protocolli, schemi
preconfezionati, tabelle varie perché, pur tenendo in conto parametri
interessantissimi, si dimenticano del parametro uomo, con tutte le sue
variabili, con tutte le sue problematiche con tutte le sue energie più o meno
influenzabili e che più o meno influenzano. Credo che nel nostro campo la
precisione sia pura utopia e che la realtà sia ben lontana da schemi e
metanalisi, così come il sapere sia senza dubbio provvisorio. Se nelle
tabelline, 2 per 2 come risultato da sempre 4, nella preparazione atletica di
uno sportivo il risultato dell’applicazione di una metodologia può variare di
gran lunga in relazione ad una quantità enorme di variabili individuali.
Abbiamo senza dubbio dei riferimenti di “base” che per quello che sono (di base
appunto) devono essere considerati, mentre l’allenamento deve essere di volta
in volta costruito su ogni individuo, considerandolo sempre come un’interazione
di tre componenti, quella strutturale (il corpo, ossa, muscoli, cicatrici,
traumi …), quella funzionale (alimentazione, stile di vita, lavoro, tensioni …),
quella mentale (idee, carattere, emozioni, storia …) [13].
In una visione
oltremodo olistica, integrata, non bisogna dimenticare come la materia vivente
sia una sorgente che irradia energia elettromagnetica, le cellule sono
caratterizzate da livelli energetici ben definiti, il DNA, in particolare, ha le
caratteristiche di un circuito oscillante e come tale può ricevere o
trasmettere onde elettromagnetiche (informazioni) alle cellule. Se analizziamo
il corpo dal punto di vista della Biofisica (quindi il corpo come un organismo
che trasforma energia; la materia fatta di energia) bisogna obbligatoriamente
studiare “il tutto”, perché l’energia non si può separare: uno dei principi
della fisica quantistica è che il concetto “causa-effetto” non ha senso; si,
praticamente il concetto chiave della Supercompensazione. Il mondo materiale
che noi percepiamo è puramente illusorio. Con i nostri sensi sperimentiamo, al
massimo delle nostre possibilità, tutto ciò che è percepibile: ma la realtà che
percepiamo non è “tutta la realtà”; Carlo Rubbia (Nobel per la fisica) ha
dichiarato che solo un miliardesimo del nostro corpo (della realtà) è
costituito dalla massa, tutto il resto è costituito da biofotoni (energia); l’essere
umano è essenzialmente energia [13].
Questa visione
è, a pare mio interessantissima e apre scenari inimmaginabili. Spesso leggiamo
sui giornali sportivi che tale giocatore ha cambiato allenatore e le sue
performance sono migliorate nettamente, da subito: allora tutti ad indagare sul
cambio di allenamento o sull’approccio psicologico del nuovo trainer ecc …,
tutte cose giuste, ma magari la risposta più precisa è che le due nuove energie
che si confrontano sono, come dire, più compatibili? Vibrano in maniera più
simile? Non so, ma mi sembra plausibile.
Capite bene che
con premesse come queste costruire un programma di allenamento diventa
veramente qualcosa di particolare, come amo definirlo, un processo creativo su
base scientifica che richiede fantasia ed entusiasmo; non è più così scontato,
vero? Anche la Supercompensazione perde un po’ di appeal, no?
Un altro appunto
che mi viene in mente è il mio smodato interesse per la paleoantropologia.
Capite bene che io sbavo per le “camminate” di Ardi (Ardipitecus Ramidus), mi
immagino come potesse muoversi, con che forza si arrampicasse, se sollevava
qualche oggetto, se lanciava; mi perdo in quella che è la caccia di persistenza,
in come gli ultrarunners, anzi, ultradecatleti preistorici di 1,5 milioni di
anni fa, seguivano e fiaccavano le prede, di come le catturavano e di come le
potessero trasportare. Ma questi come Supercompensavano? Mica avevano letto
Harre o Jakovlev o Verkhoshanskij? Vuoi vedere che esiste un meccanismo innato,
evoluto nel tempo, migliorato ed affinato con la pratica che permetteva all’uomo
di scegliere come, quando e per quanto tempo riposarsi? Vuoi vedere che questo “adattamento”
lo abbiamo dimenticato e che tutte queste teorie non sono altro che miseri
tentativi di dimostrazione dell’ovvio? Di ciò che eravamo e che non siamo più
capaci ad essere?
E poi c’è
questa frase “Che occasione unica per reinventare il mondo. Grazie, crisi.
J.Séguéla”. Qui si aprono altri scenari veramente infiniti. Nella nostra
società si registra oggi un evidente indebolimento delle forze mentali e
motivazionali degli individui. E’ evidente a tutti che sia il cervello a creare
la cultura. Un po’ meno ovvio è il contrario: anche la cultura, a sua volta,
plasma il cervello. Significa che le pratiche di vita, gli atteggiamenti, i
modelli di comportamento premiati dalla nostra società modellano il nostro
cervello e le nostre funzioni mentali. La “crisi” investe la società nel suo
insieme, diventa un dato permanente con cui bisogna imparare a convivere. Un
simile scenario, per essere affrontato, richiederebbe agli individui di poter
disporre di grandi risorse interiori; risorse che oggi sono sempre più
impoverite. L’impegno individuale, il potenziamento delle proprie risorse
interne può “salvare il mondo” [14]. Ed è in questo panorama che si svolgono
gli allenamenti del terzo millennio. Con individui schiacciati da problemi
(mutuo, lavoro, bollette, conti …) che fondamentalmente non sono i loro, ma
investono il loro modo di vivere. Chi riesce a far fronte a ciò, chi sviluppa
una “resilienza”, una forza interiore prima che mentale atta a contrastare l’inadeguatezza generalizzata,
chi riesce a “ringraziare” la crisi e a tirare fuori il meglio di sé riesce ad
adattarsi i maniera senza dubbio più funzionale. Supercompensa? Può essere
anche questo parte del fenomeno. Non va trascurato nella programmazione di un
allenamento.
Beh, un po’ di
strada l’abbiamo fatta. Da un grafico che si arrogava il diritto di spiegare
come organizzare l’allenamento, siamo giunti ad asserire che forse organizzare
un allenamento è un qualcosa di “non-fattibile” o comunque di “poco-fattibile”,
ma semplicemente si può cercare di organizzare delle attività che siano quanto
più funzionali all’individuo che le pratica e quanto più puntate verso l’obiettivo
che l’individuo auspica raggiungere. Mi permetto di dare un consiglio. Capisco
che i consigli devono darli solo i vecchi saggi, ma vecchio lo sto diventando e
quindi ho la presunzione di poter diventare anche saggio: le teorie dell’allenamento,
quella classica e, anche quella moderna, vanno studiate. Alla nausea. Esiste la
possibilità di utilizzare risorse solo qualche anno fa impensabili, quindi, non
si possono avere scuse. Bisogna studiare. Ma, d’altro canto, l’uomo di scienza
deve avere sempre, come insostituibile alleato, il dubbio. Quindi lo studio
deve essere continuo, ma allo stesso tempo con la mentalità più aperta
possibile. Mi piacciono le persone flessibili, nel senso di una mente
flessibile, mi piacciono i cerchi e non i quadrati, mi piace chi si chiede “perché?”
con l’ingenuità e la curiosità di un bimbo, ma con la testa di un adulto. In
questo modo mi pongo davanti al, in questo caso, processo di allenamento. Con
la consapevolezza che bisogna avere delle solide basi, ma che queste sono
solamente un piccolo punto di partenza per innumerevoli strade. L’allenamento
deve essere disegnato sull’atleta e con l’atleta, deve rappresentare chi lo
svolge e, in parte, anche chi lo ha programmato, l’unione allenatore/atleta non
può essere una dicotomia, ma deve essere l’avvicinarsi di due persone che
risuonano insieme. Ecco, il consiglio migliore che posso dare è quello di
cercare di vibrare all’unisono con la persona che allenate, se siete
allenatori, o con il vostro trainer se siete sportivi, in questo modo si può
creare un ponte tra ciò che la dice la scienza e ciò che la scienza, ancora,
non riesce ad accettare.
Bisogna avere il
coraggio di gridare “Il Re è Nudo!!! Il Re è Nudo!!!!”.
Siccome spero di
essere un disturbatore di coscienze, lo grido: IL RE E’ NUDO!!!!!!!!!!!!
SL.A.
Bibliografia:
[1]: Preparazione atletica e riabilitazione Carli-DiGiacomo C.G. Edizioni
Medico Scientifiche 2013
[2]: Allenamento Sportivo Bellotti-Matteucci ed. Utet 2004
[3]: Progettare l’allenamento
sportivo Gollin-Vona Ed.Cortina 2004
[3b]: Metodologia della
preparazione fisica Gollin ed. Elika 2014
[4]: Principi di metodologia del
fitness Paoli-Neri ed. Elika 2010
[5]: Biologia dello sport Weineck
ed. CazettiMariucci 2013
[6]: Triathlon D’Amen-Benelli ed. CalzettiMariucci 2002
[7]: Scienza e pratica dell’allenamento della forza Zatsiorsky-Kraemer ed. CalzettiMariucci 2008
[8]: SdS rivista di cultura sportiva n°62/63 – Supercompensazione mito o
realtà? Verkhoshanskij Y.-Verkhoshanskija N.
[9]: Strength&Conditioning rivista n° 13 – La storia della
supercompensazione, tra leggenda e realtà. Evangelista P.
[10]: Teoria dell’allenamento Harre ed. Società Stampa Sportiva 1995
[11]: SdS rivista di cultura sportiva n°85 – La supercompensazione è ancora
attuale? Hottenroth K.-Neumann G.
[12]: Scienza e Sport rivista n°27 – La supercompensazione e le sue
falsità. Arcelli E.
[13]: Olismologia, la disciplina della sintesi Capello ed. Tecniche Nuove
2013
[14]: Tecniche di resistenza interiore Trabucchi ed. Mondadori 2014
Immagini:
L'immagine sopra al titolo ritrae Iron Cowboy James Lawrance mentre "Supercompensa" ;-) è tratta da: facet.interia.pl
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