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venerdì 28 agosto 2015

La mia ora d'oro, l'allenamento scientifico, la Supercompensazione, la ricerca di una nuova via






LA MIA ORA D’ORO. L’ALLENAMENTO SCIENTIFICO, LA SUPERCOMPENSAZIONE, LA RICERCA DI UNA NUOVA VIA



Sono molto legato ai libri. Ai “miei” libri, quelli che mi hanno formato, educato, cresciuto, che mi hanno lasciato qualcosa. Non sono mai stato un lettore raffinato, tutt’altro, ma ho sempre avuto un certo fiuto nello scegliere ciò che poteva piacermi od interessarmi, spesso l’immagine in copertina, a volte il titolo, sicuramente l’argomento o il genere trattato, piccoli segni potevano farmi decidere per un testo piuttosto che un altro e difficilmente sbagliavo. Tutto sommato, a parte le “manzoniane” crisi dei primi anni delle superiori, possa vantarmi di essere un buon lettore; qualche pagina posso dire con orgoglio, di averla girata.

Discorso diverso per i libri regalatomi. A volte colpivano nel segno, a volte meno. Ho sempre messo un po’ del mio, ho sempre provato a iniziarli, mi ci sono anche perso, ma non sempre sono riuscito ad instaurare quell’inevitabile feeling tra scrittore e lettore, in fondo il gusto “letterario” è veramente un qualcosa di personale, non ci si può fare nulla.


Però.


Qui il però ha proprio il significato di congiunzione avversativa, perché, se devo essere sincero, uno dei libri di cui ho un ricordo più nitido, forse uno di quelli che ha spinto la mia vita in una determinata dimensione, chi lo sa, mi è stato regalato.

Non avevo ancora compiuto 11 anni, il 1984 era iniziato con un’impresa sportiva eccezionale, soprattutto per gli amanti del ciclismo. Un atleta italiano quasi a fine carriera, aveva detronizzato un record che resisteva da tempo, un record saldamente in mano ad un mito non solo del ciclismo, ma dello sport in generale, Eddy Merckx.


Francesco Moser da Palù di Giovo (TN) aveva detronizzato il record dell’ora disintegrando il muro dei 50 km ed aprendo un’altra pagina nella storia dell’allenamento sportivo. Eh si, perché quell’impresa è stata figlia, oltre che del talento smisurato del Checco nazionale, di una sinergia con un gruppo di medici, biologi, nutrizionisti e preparatori atletici, l’Equipe Enervit. Si spalancava, anche nel nostro paese, l’approccio scientifico all’allenamento.

Ecco, io tutto sommato me ne fregavo. Ero contento per il successo di Moser, perché in casa mia si tifava per lui (era l’epoca dei dualismi, e quello Moser-Saronni ha infiammato la mia infanzia), mi piaceva il ciclismo, ma non era il mio sport preferito, non sapevo nulla di allenamento, di alimentazione sportiva, di scientificità.

Mi affacciavo alle scuole medie con l’apparecchio fisso ai denti, e quello, per me, era già abbastanza.


Però.



Ricordo quel giorno che mio padre entrò in casa con quel libro sottobraccio. Probabilmente era passato qualche mese dall’impresa del corridore trentino ma, complice anche la vittoria al Giro d’Italia, si parlava ancora di Moser e del suo “misterioso” entourage di preparatori. Il titolo non lasciava scampo a nessun dubbio: “MOSER: LA MIA ORA D’ORO – la leggendaria impresa di Città del Messico nell’appassionante racconto del campione”; tra i vari capitoli spiccava un curioso: “I retroscena segreti dell’exploit, la verità sull’intervento della scienza”. Non so bene il perché, mi tuffai su quel volumetto (numero unico 6500 lire, bei tempi), lo divorai, l’ho letto e riletto decine di volte, di più, in trent’anni sicuramente l'ho aperto centinaia di volte, trovando sempre qualche spunto di riflessione, qualche curiosità, qualche dato che il tempo ha clamorosamente smentito o pomposamente confermato, qualche studioso caduto in disgrazia (non voglio entrare qui sul “Team Conconi” e la scuola dell’università di Ferrara, sul doping ematico e cose del genere), qualcun altro che invece ha, di diritto, fatto la storia (il compianto Enrico Arcelli, scomparso proprio recentemente, che ho avuto l’onore di conoscere qualche anno fa durante un corso).


Chissà cosa quel libro fece scattare dentro di me, ma senz’altro fu qualcosa che mi colpì nel profondo, che segnò irrimediabilmente la mia vita. Avevo aperto una delle mie “Sliding Doors”.


Mi tuffai nello sport (con gli alti e bassi emotivi che possono caratterizzare i primi anni dell’adolescenza), ma da quel momento l’attività fisica, specie quella di resistenza divenne una costante. Se devo trovare un “leitmotiv” che ha accompagnato quegli anni è senz’altro il movimento fisico. Mi innamorai proprio dello sport tanto che, dopo un agonizzante peregrinare tra un’università ed un’altra, mi iscrissi all’ISEF. Che meraviglia. Dovevo fare due cose: sport e capire perché e come farlo meglio. Ogni materia pratica era una gara, uno scontro, una partita, il pomeriggio dopo le lezioni ci si vedeva con i miei colleghi di studio e si faceva allenamento. Nuoto, corsa, pallavolo, pallacanestro, tutto mi eccitava, era come vivere nel paese dei balocchi. Venivo valutato per fare la cosa che mi piaceva di più al mondo, muovermi. Il passo ad innamorarmi anche delle regole (o presunte tali) che stanno alla base del movimento è stato brevissimo. Più mi muovevo, più volevo capire perché lo facevo e come fare per muovermi meglio. Se mangiavo qualcosa volevo capire che effetti poteva avere sul mio corpo e come adoperarmi per migliorare questi effetti. Ero un laboratorio vivente, ero lo scienziato pazzo e la cavia. Teoria e pratica. Tanta pratica e tanta teoria. E non esisteva internet, era l’alba dell’era informatica. Si compravano i libri. Eh già, i libri e tutto ciò che avevo letto su quello di Moser acquistava un senso, tutto ciò che quelle pagine di grafici e tabelle volevano spiegare, ora venivano capite. Capite e criticate. Capite e ammirate. Il passaggio a scienze motorie è quindi un atto dovuto, una forma di rispetto a quella scienza dello sport che tanto mi entusiasmava.


La bellezza della vita (benedizione e maledizione, direi) è la sua imprevedibilità. La scienza porta con sé il dubbio, i dubbi portano desiderio di ricerca; nuove “scoperte” portano inevitabilmente a nuovi dubbi, un Uroboro infinito, anzi un nastro di Moebius dalle molteplici facce. Una rincorsa senza tregua.


Questa imprevedibilità mi porta, nel tempo, a cercare qualcosa che oltrepassi la scienza dell’allenamento, non ne prendo le distanze, ma la assimilo nel concetto più vasto di uomo e di umanità. Mi rendo conto che le spiegazioni date a grafici e tabelle non mi soddisfano più, che quell’ora d’oro di Moser ha aperto una porta su di un labirinto di conoscenza che, contrariamente a quello che pensavo i primi anni di ISEF, non si potrà mai completare. Quindi lo interpreto, o almeno ci provo. A modo mio. Lo faccio mio. Sono Teseo, ma alla fine sono anche il Minotauro.


Vediamo allora di provare a spiegare questa interpretazione.


Uno dei principi che ha caratterizzato i miei primi studi è quello della “Supercompensazione”. Il grafico è famosissimo, si trova ovunque si parli di allenamento, e la teoria che ne sta alla base, pur essendo conosciuta da pochi, è utilizzata, o meglio, è “raccontata” da tutti.

La supercompensazione può essere definita come un processo fisico che permette di sviluppare i necessari adattamenti corporei ai carichi allenanti, in modo da raggiungere l’effetto ricercato dall’allenamento: come effetto dell’allenamento non soltanto si recupera il potenziale energetico speso, ma si raggiunge un potenziale maggiore. Il punto di partenza dell’allenamento successivo sarà quindi più alto rispetto ai livelli iniziali [1]


Fig.1




Tanti carichi, tanti recuperi ben fatti, tanto incremento delle capacità lavorative, in sintesi.

Da tutto quanto sopra esposto, si può definire l’allenabilità come la maggior o minore capacità dell’organismo di tollerare e di adattarsi ai carichi di lavoro di allenamento, spostando la propria capacità di prestazione verso il livello più elevato consentito dalle caratteristiche genetiche e dalle favorevoli condizioni ambientali. [2]


Capite bene che tutto questo, per noi studenti/sportivi era (ed è tutt’ora, comunque) terribilmente affascinante. Un grafico semplice ti spiega come poter sistemare gli allenamenti per avere un risultato positivo nel tempo. L’uovo di Colombo.


Ci sono persone che si accontentano delle risposte fornite loro, altre, invece, hanno il bisogno di scavare un po’ più a fondo. Ma questa benedetta “Supercompensazione” da dove viene?


Apriamo una piccola parentesi: la sindrome generale di adattamento.


Tale denominazione deriva dalla sindrome generale di adattamento di Hans Seyle secondo cui l’organismo reagirebbe ad uno stimolo (stress), proveniente sia dall’esterno che dall’interno, per mantenere la sua omeostasi, attraverso tre fasi successive:


Reazione d’allarme: l’organismo subisce l’azione di shock dell’agente stressante (nel nostro caso l’allenamento) seguita da una reazione di aggiustamento immediata (ormonale, respiratoria, cardiovascolare, metabolica, ecc) nella quale vengono attivate le difese necessarie al fine di poter reagire o fuggire dalla causa che ha generato stress.


Fase di resistenza: l’organismo aumenta la sua capacità di resistenza verso il fattore stressante che lo ha colpito, creando una serie di modificazioni morfo-funzionali che lo preservino da ulteriori stimoli stressanti; essi vanno sotto il nome di adattamenti e sono specifici per ogni sport ed è proprio grazie a loro che l’atleta diventerà capace di sostenere performance migliori.


Fase di esaurimento: l’organismo soccombe agli agenti stressanti (carichi di allenamento); tale situazione può comparire più o meno tardivamente, per effetto sommatoria, in rapporto alla capacità di difesa dell’organismo e all’intensità dello stress; essa si traduce in una stagnazione delle prestazioni e nelle situazioni più gravi nel loro decadimento con l’instaurarsi del superallenamento (fatica cronica), sindrome patologica che debilita fortemente l’atleta rendendolo incapace di recuperare gli stress dell’allenamento.

Al contrario, se lo stimolo allenante sarà seguito da adeguate fasi di recupero, si darà origine al fenomeno della Supercompensazione, dove l’organismo non solo recupererà l’affaticamento subito dal training, ma lo farà ad un livello superiore, premunendosi da un futuro stimolo stressante.

Questo porterà l’atleta ad un grado di resistenza superiore ed alla possibilità di innalzare lo stimolo specifico rispetto a quello che avevamo utilizzato nell’allenamento precedente a patto che il tempo intercorso tra le due esercitazioni non sia eccessivo e l’organismo conservi il “ricordo” dell’esercitazione precedente.

In questo caso, una nuova esposizione al carico più intensa della precedente, farà aumentare ancora la possibilità di adattamento a nuovi stimoli allenanti. Avremo così un individuo che per gradi successivi sarà preparato ad impegni maggiormente gravosi o per intensità del lavoro (incremento % rispetto al carico massimo) o per quantità del lavoro (per esempio km in bicicletta).

Gli stimoli allenanti hanno tempi di supercompensazione diversi, tale dinamica viene definita eterocronismo e la sua conoscenza è fondamentale per la strutturazione dell’allenamento. Questo tipo di distribuzione dello stimolo-adattamento dovrà avvenire mediante un’organizzazione ciclica che garantisca la ripetizione dello stimolo in tempi utili al fine di sfruttare la supercompensazione [3].


Dunque possiamo dire, riepilogando, che qualunque sia la causa di uno stress intenso che turba l’organismo, quest’ultimo avrà la tendenza a reagire con una sequenza preordinata di risposte al fine di ristabilire l’omeostasi interna. Questi meccanismi non solo non sono nocivi, ma sono fondamentali per ogni adattamento all’ambiente esterno e quindi alla prosecuzione della specie e all’evoluzione. Un eccesso di stressors, gli stimoli stressanti, porterà a un eccesso di stress con i connotati negativi comunemente conosciuti, mentre una dose adeguata di stimoli stressanti porterà un adattamento all’ambiente. E’ evidente come questi concetti si possano applicare perfettamente agli stimoli allenanti.

Se aumentiamo lo stress organico allenante, agendo sulla durata dell’allenamento o sull’entità del carico, ci vorrà un tempo più lungo, rispetto ad una seduta standard, affinché l’organismo ripristini le condizioni iniziali e dia il via alla fase di supercompensazione. In entrambi i casi il maggiore stress organico prodotto, se seguito dall’opportuno recupero, potrà determinare un incremento della successiva risposta supecompensativa.

Da ciò si evince come la durata dell’allenamento, l’entità del sovraccarico, il periodo dedicato al recupero e, di conseguenza, la frequenza degli allenamenti costituiscano i parametri fondamentali dell’allenamento e siano strettamente legati tra loro. [4]


Ecco qui che poco per volta il discorso si complica un po’. Oltre a “Supercompensazione” e al grafico semplice, intervengono altri termini a far approfondire le nostre ricerche.

Uno di questi termini, fondamentale per comprendere il processo è quello di adattamento. Secondo [5] si può affermare che l’adattamento e la capacità di adattamento, che rappresentano i presupposti perché possa aumentare la capacità di prestazione dell’organismo o di suoi singoli sistemi parziali, subiscono l’influenza di numerosi fattori. Il processo di adattamento si manifesta in forme e tipologie diverse ed è limitato da fattori genetici. I fattori ambientali – ad esempio in forma di stimoli di allenamento – possono esercitare la loro azione di trasformazione del genotipo in fenotipo solo entro questi spazi più o meno ampi, specifici di un organo o di un sistema di organi.

Quindi qui saltano fuori altri fattori che possono modificare, in positivo od in negativo, il risultato di un processo di allenamento e quanto detto finora non è in contrasto con quanto già ipotizzava negli anni ’50 Hans Seyle, riferendosi ad una limitata e particolare energia di adattamento posseduta, in partenza, da ciascun individuo. Secondo tale teoria le possibilità di indurre modificazioni stabili delle strutture e delle funzioni dell’organismo come conseguenza della reiterata somministrazione di carichi di allenamento non sono infinite, trovano la loro limitazione fondamentale nel patrimonio genetico di ciascuno. L’allenamento, da questo punto di vista, può soltanto consentire l’espressione e l’attualizzazione di attitudini psicofisiche potenzialmente possedute dall’individuo. E’ evidente che cercare di superare i limiti geneticamente prestabiliti per ciascun individuo comporta, sempre, l’attivazione di processi di autodifesa da parte dell’organismo e, nei casi estremi, il cedimento delle strutture interessate [2].


Stiamo lentamente completando il nostro ragionamento. Dunque i risultati possibili di un processo di allenamento sono due: adattamento o disadattamento.

L’allenatore al termine di un congruo lasso di tempo (macrociclo)

Se la modulazione dei fattori condizionali è stata equilibrata (volumi e intensità),

Rispettando i tempi responsivi del soggetto (recuperi),

Integrando  i fattori specifici con quelli generali della disciplina (fattori generali e specifici),

potrà verificare una reazione adattativa: una crescita della prestazione completa e stabile in linea nei tempi e modi con le attese.

In caso contrario l’insuccesso si evidenzierà nelle seguenti manifestazioni:

Reazione transadattativa: fluttuazioni prestative e stagnazione dei risultati

Reazione disadattativa: defaillance prestativa e overtraining [6].


Nell’ambito di questa teoria, sono accettate anche variazioni più sofisticate del piano di allenamento. Una variazione molto seguita dagli allenatori, quella del microciclo d’urto (di supercarico) prevede diverse sedute con carico elevato e intervalli di recupero brevi tra di esse, alternate ad un periodo di riposo relativamente lungo. Si ritiene che un andamento di questo genere induca una supercompensazione finale superiore a quella normale. [7]

Il modello della “Supercompensazione” qui descritto è quello più accreditato da diversi decenni e, come dicevamo, largamente accettato dagli allenatori. Malgrado la sua popolarità, però, è necessario un esame critico di questa teoria [7].

Il modello descritto, possiamo chiamarlo ad “un fattore” (carico/supercompensazione) alla prova dei fatti si è dimostrato troppo semplicistico in relazione alla complessità dei fenomeni in oggetto. In particolare sono emerse critiche:

Sulla rilevanza del meccanismo di supercompensazione, non sempre comprovato da tutti gli indici biologici (es. la concentrazione di ATP non è modificata da alcun carico somministrabile) (Verkhoshanskij in [8] a tal proposito, però osserva come ad intensità molto elevate e immediatamente dopo il lavoro si possa osservare una fase di “Supercompensazione” di brevissima durata);

Sull’eterocronismo degli adattamenti (metabolici, strutturali, ecc…), incostanti e quindi imponderabili nell’individuo stesso in quanto influenzabili da vari fattori;

Sui criteri di “temporizzazione” degli stimoli, non chiariti e documentati nella loro reale efficacia.

In questi ultimi anni sta ottenendo credito la “teoria a due fattori”, forse più complessa della precedente, ma foriera, almeno concettualmente, di un maggior controllo del processo allenante. La forma (preparedness), potenziale specifico dell’atleta, è variabile nel tempo in funzione di due elementi. Il primo è la condizione fisica (fitness), stato stabile, lentamente modificabile; il secondo, fast-changing, è dato dal grado di perturbazione (fatigue) prodotto non solo dal carico allenante, ma anche dall’esito degli stress psicologici, dagli stati patologici non evidenti (anemia, infezioni latenti …). L’effetto di una seduta allenante sarebbe la somma algebrica, istante per istante, della fitness e fatigue prodotti. Approssimando, si è constatato che lo stato di fatica perdura per 1/3 del tempo di guadagno della condizione; quindi se la stanchezza in conseguenza di un carico si manifesta per 24 ore, l’effetto positivo dello stesso si protrarrà per 72 ore [6].

Semplificando: Secondo il modello a due fattori, gli effetti immediati successivi a una sessione di allenamento rappresentano la combinazione di due processi:

·         Un miglioramento della fitness indotto dalla sessione stessa;

·         La fatica.

Al termine della sessione, lo stato di preparazione dell’atleta:

Aumenta grazie al miglioramento della fitness;

Peggiora a causa della fatica.

Il risultato finale è dato dalla somma delle modificazioni positive e negative.

In base alla teoria dell’allenamento a due fattori, la durata degli intervalli tra sessioni di allenamento consecutive deve essere stabilita, in modo tale che tutte le tracce degli effetti negativi della sessione precedente siano sparite, pur mantenendo gli effetti positivi del miglioramento della condizione fisica. Questo modello è diventato abbastanza popolare tra gli allenatori, che lo seguono principalmente per programmare l’allenamento negli ultimi giorni di una gara. [7].



Fig.2 


Quindi, siamo partiti dalla “Sindrome Generale di Adattamento” di Hanse Seyle per arrivare alla teoria della “Supercompensazione”. Come ci siamo riusciti?


Facciamo un passo indietro.


[8] ci ricorda come il processo di “Supercompensazione” venne definito da Jakovlev negli anni ’50, stabilendo che il contenuto di glicogeno diminuito dopo il lavoro, durante il periodo di riposo, non solo aumenta fino a raggiungere il livello iniziale, ma addirittura lo supera (principio di Enghel’gard).



Fig.3

1: Utilizzazione; 2: Ripristino; 3: Supercompensazione; 4: Ritorno (ad onde) al livello iniziale


Quindi il buon Jakovlev non è proprio il primo che si occupa di questo processo, anzi, per essere precisi, il fenomeno della supercompensazione è stato studiato, per la prima volta, ancora nel XVII secolo, dal patologo tedesco Weigert (infatti alcuni testi definiscono il fenomeno della supercompensazione come “Legge di Weigert”, ad esempio [1]). I suoi studi in tal senso erano diretti sul meccanismo di cicatrizzazione delle ferite, egli stabilì come durante la guarigione il tessuto danneggiato venga rigenerato in eccesso, poi si verifica lo sviluppo del tessuto di granulazione che, successivamente, subisce un’involuzione [8]. In un libro del 1905 “Organismi patogeni compresi batteri e protozoi” viene citato il termine Supercompensazione con chiara attribuzione a Weigert e alla sua legge [9].

Anche I.Pavlov, Nobel per la medicina, conferma la legge di Weigert studiando la funzione delle ghiandole salivari e stabilendo che , durante la secrezione attiva della saliva, le ghiandole perdono una parte dei composti azotati. Quando l’attività delle ghiandole cessa, il contenuto dei nitrati viene ripristinato in eccesso e, successivamente, ritorna al livello normale [8].

Negli anni ‘30 del novecento altri studiosi confermarono la bontà della “visione” di Weigert, i lavori di Yu.Fol’bort condotti sull’attività cardiaca e, specialmente, quelli del biochimico sovietico V. Enghel’gard che formulò il principio secondo il quale: “il processo primario della disintegrazione provoca o potenzia sempre la reazione responsabile della resintesi”; questo principio venne ripreso una trentina di anni dopo anche dal neurofisiologo P. Anochin che affermò: “ … nei biosistemi con funzionamento normale, i processi di recupero sono sempre potenzialmente più intensi e superano i processi di disgregazione” [8].

Jakovlev ha quindi trasferito questi concetti al mondo dell’allenamento dimostrando che il meccanismo della Supercompensazione è corretto anche per creatinfosfato, proteine enzimatiche e strutturali, fosfolipidi, quantità di mitocondri nelle fibre muscolari [8].


Ricapitolando vediamo come la legge della Supercompensazione non sia legata solamente al mondo dell’allenamento, anzi, abbiamo visto come sia stata quasi una “forzatura”, passatemi il termine, il suo trasferimento alle discussioni in tale ambito. Il nostro corpo lotta per mantenere il suo equilibrio interno e il meccanismo Supercompensatorio è una manifestazione di come il corpo stesso si organizzi, attui dei cambiamenti, si metta in gioco pur di mantenere questo equilibrio [9].


Questo equilibrio interno non è dunque fisso e costante, ma può variare dentro un certo intervallo di valori, un forchetta più o meno ampia che può permettere al corpo di esplicare la sua capacità migliore, quella di adattarsi. A tal proposito interessante vedere come la tendenza del corpo al suo mantenimento dell’equilibrio interno, nonostante i numerosi attacchi provenienti dall’esterno, venga definita Omeostasi e cioè “similmente stabile”, quindi non identico di volta in volta, ma “adattato” all’interno di un range di valori diciamo tollerati dall’organismo (un esempio? La temperatura interna del corpo che, entro certi limiti, appunto, rimane in omeostasi sia che la temperatura esterna sia di 35° che di 5°).


Risulta evidente come con queste premesse, la GAS, Sindrome Generale di Adattamento di Hans Seyle ci stia proprio a pennello. Il merito che noi allenatori, preparatori atletici e studiosi dello sport possiamo attribuire alla GAS è quello di aver fornito un modello unico dell’adattamento dell’organismo alla varietà di stimoli che un allenamento può fornire: anaerobici, aerobici, lattacidi, alattacidi, continui, intervallati, conglobando in un’unica definizione il concetto di Supercompensazione di Weigert e il concetto (ai tempi di Seyle ancora inesistente, ma di futura definizione) di sovrallenamento [9]. Quindi a questo punto, siamo ormai negli anni sessanta, inglobare tutte queste teorie nel “calderone” dell’allenamento è cosa fatta, il fenomeno della Supercompensazione e la GAS diventano chiave di lettura della preparazione atletica di alta qualificazione e, nel tempo, fondamenta per tutta la teoria dell’allenamento (“La supercompensazione rappresenta il fenomeno basilare per il miglioramento funzionale e di prestazione [10]).


Prima di dire la mia opinione in merito a tutto ciò, vorrei sottolineare come, comunque, negli anni, la teoria della Supercompensazione sia stata oggetto di critiche. Alcune le abbiamo già presentate prima, altre non meno importanti vengono portate da [8], quando pur evidenziando come il fenomeno in questione sia espressione della legge fondamentale della sopravvivenza, dell’adattamento alle condizioni di vita e del miglioramento funzionale di tutti gli esseri viventi, esso, anzi, la sua “letterale” interpretazione, nel campo dell’allenamento ha portato a due grandi errori fatali; il primo nell’aumento del volume del carico di allenamento (più è meglio; per batter l’avversario devi allenarti più di lui), il secondo, diretta conseguenza di questo, volumi di allenamento enormi, esasperati che hanno cominciato a superare le possibilità dell’organismo umano. Il primo errore porta all’esaurimento delle funzioni dei sistemi endocrini dell’organismo (sovrallenamento e traumi) e all’utilizzazione poco efficace dell’energia degli atleti; il secondo porta all’utilizzo (lecito od illecito) di “procedure per il recupero” che, nella migliore delle ipotesi, eliminano le tracce biochimiche dell’effetto allenante del carico, alterano lo sviluppo delle biosintesi di riparazione ed eliminano l’azione di induzione dei metaboliti che determinano, in modo specifico, la biosintesi post-lavorativa.


Altre critiche importanti [11] vengono riferite al fatto che la Supercompensazione rappresenta un semplice schema “stimolo-reazione”, quindi il carico sportivo viene organizzato esclusivamente attraverso la manipolazione dosata della variabile di ingresso carico allenante. Secondo alcuni autori allo stato attuale delle nostre conoscenze quello che meglio corrisponde alla realtà dell’allenamento è un modello a più fasi dell’adattamento; il corpo umano possiede diversi stati funzionali che possono assicurare la prestazione  se modificati in senso adattativo (sistema endocrino, sistema nervoso, cardiocircolatorio, immunitario, metabolismo energetico …) ed in tal senso, quindi, deve organizzarsi il processo allenante [11 – 9].


Anche in [12] i concetti che vengono messi sotto la lente della critica sono grossomodo gli stessi, ponendo l’accento sul fatto che trattando il fenomeno della Supercompensazione non si prende in considerazione ciò che succede nell’organismo, ma soltanto quello che viene svolto come allenamento (input) e di come cambia la prestazione dell’atleta (output), considerando l’organismo, quindi, come una scatola chiusa.

Come mi muovo io in tutto questo? Come la “mia ora d’oro” diventa “la ricerca di una nuova via?”.

Assimilare questi concetti non è senz’altro cosa facile; la genialità del grafico della Supercompensazione sta nel semplificare all’ennesima potenza un concetto estremamente complicato. Ma questa è anche la sua debolezza, perché se in generale il fenomeno in questo modo si può comprendere con immediatezza, lascia al palo parecchi interrogativi (almeno in chi se li vuole porre). Anche le critiche più o meno varie  non affrontano nello specifico quello che, a mio avviso, è il problema principale:


L’uomo. Il vero e proprio concetto di uomo, con tutte le sue problematiche, con tutto quello che gli gravita intorno, con tutte le energie e vibrazioni che lo nutrono (o lo indeboliscono), con la mente che può renderlo invincibile o può renderlo un rottame. Guardando Iron Cowboy James (http://www.ironcowboy.co/#home ) mi chiedo: e questo come Supercompensa? Utilizzerà le teoria ad un fattore? A due fattori? A più stadi? Uno che conclude 50 Triathlon IronMan (3800 m nuoto – 180 km bici – 42,195 km corsa), in 50 giorni di fila, in 50 stati diversi, come e dove si inserisce in tutti questi grafici? Capisco che ogni prestazione non sarà sicuramente stata eseguita al massimo possibile dell’atleta, ma nel suo complesso, la performance globale è, non saprei definirla, boh, fate voi, per me è impressionante, devastante, tutto ciò che vi viene in mente con suffisso –ante. E le imprese di Dean Karnazes, quelle di Kilian, quelle di Marco Olmo o quelle di Bruno Brunod? Quelle del “Lupo” Ghidoni? Ma questi Supercompensano? E poi mi perdo a guardare l’atletica leggera in tv. Penso sia lo sport (insieme al nuoto) che mi piace di più guardare. Mi appassiono veramente. In questi giorni ci sono i mondiali a Pechino; grandi atleti e grandi prestazioni. La scuola italiana, fondata sulla teoria dell’allenamento più classica, posata sulle solide e inappuntabili fondamenta della fidal, cresciuta a pane e Supercompensazione, ha portato una squadra di relitti scoppiati (e lo dico con il massimo rispetto veramente per grandi atleti con grande passione, ma quello è, non si può dire altro) che non sono andati a medaglia, ma che dico, non hanno passato nemmeno un turno (o poco più). E questi hanno Supercompensato?


Allora forse c’è di più, o forse c’è qualcosa di diverso. E io sono terribilmente attratto da quel qualcosa in più e, soprattutto da quel qualcosa di diverso.


Ho sempre odiato il concetto della percentuale. Utile, importante, ma il pensiero di essere ingabbiato in un dato (% appunto) mi ha sempre infastidito. Il mondo dell’allenamento è fatto di percentuali, anche i concetti finora esposti si basano su quelle: ti alleni al 70% del massimale, corri al 65% del VO2 max … ovviamente, per lo stesso motivo, patisco un po’ protocolli, schemi preconfezionati, tabelle varie perché, pur tenendo in conto parametri interessantissimi, si dimenticano del parametro uomo, con tutte le sue variabili, con tutte le sue problematiche con tutte le sue energie più o meno influenzabili e che più o meno influenzano. Credo che nel nostro campo la precisione sia pura utopia e che la realtà sia ben lontana da schemi e metanalisi, così come il sapere sia senza dubbio provvisorio. Se nelle tabelline, 2 per 2 come risultato da sempre 4, nella preparazione atletica di uno sportivo il risultato dell’applicazione di una metodologia può variare di gran lunga in relazione ad una quantità enorme di variabili individuali. Abbiamo senza dubbio dei riferimenti di “base” che per quello che sono (di base appunto) devono essere considerati, mentre l’allenamento deve essere di volta in volta costruito su ogni individuo, considerandolo sempre come un’interazione di tre componenti, quella strutturale (il corpo, ossa, muscoli, cicatrici, traumi …), quella funzionale (alimentazione, stile di vita, lavoro, tensioni …), quella mentale (idee, carattere, emozioni, storia …) [13].

In una visione oltremodo olistica, integrata, non bisogna dimenticare come la materia vivente sia una sorgente che irradia energia elettromagnetica, le cellule sono caratterizzate da livelli energetici ben definiti, il DNA, in particolare, ha le caratteristiche di un circuito oscillante e come tale può ricevere o trasmettere onde elettromagnetiche (informazioni) alle cellule. Se analizziamo il corpo dal punto di vista della Biofisica (quindi il corpo come un organismo che trasforma energia; la materia fatta di energia) bisogna obbligatoriamente studiare “il tutto”, perché l’energia non si può separare: uno dei principi della fisica quantistica è che il concetto “causa-effetto” non ha senso; si, praticamente il concetto chiave della Supercompensazione. Il mondo materiale che noi percepiamo è puramente illusorio. Con i nostri sensi sperimentiamo, al massimo delle nostre possibilità, tutto ciò che è percepibile: ma la realtà che percepiamo non è “tutta la realtà”; Carlo Rubbia (Nobel per la fisica) ha dichiarato che solo un miliardesimo del nostro corpo (della realtà) è costituito dalla massa, tutto il resto è costituito da biofotoni (energia); l’essere umano è essenzialmente energia [13].


Questa visione è, a pare mio interessantissima e apre scenari inimmaginabili. Spesso leggiamo sui giornali sportivi che tale giocatore ha cambiato allenatore e le sue performance sono migliorate nettamente, da subito: allora tutti ad indagare sul cambio di allenamento o sull’approccio psicologico del nuovo trainer ecc …, tutte cose giuste, ma magari la risposta più precisa è che le due nuove energie che si confrontano sono, come dire, più compatibili? Vibrano in maniera più simile? Non so, ma mi sembra plausibile.


Capite bene che con premesse come queste costruire un programma di allenamento diventa veramente qualcosa di particolare, come amo definirlo, un processo creativo su base scientifica che richiede fantasia ed entusiasmo; non è più così scontato, vero? Anche la Supercompensazione perde un po’ di appeal, no?


Un altro appunto che mi viene in mente è il mio smodato interesse per la paleoantropologia. Capite bene che io sbavo per le “camminate” di Ardi (Ardipitecus Ramidus), mi immagino come potesse muoversi, con che forza si arrampicasse, se sollevava qualche oggetto, se lanciava; mi perdo in quella che è la caccia di persistenza, in come gli ultrarunners, anzi, ultradecatleti preistorici di 1,5 milioni di anni fa, seguivano e fiaccavano le prede, di come le catturavano e di come le potessero trasportare. Ma questi come Supercompensavano? Mica avevano letto Harre o Jakovlev o Verkhoshanskij? Vuoi vedere che esiste un meccanismo innato, evoluto nel tempo, migliorato ed affinato con la pratica che permetteva all’uomo di scegliere come, quando e per quanto tempo riposarsi? Vuoi vedere che questo “adattamento” lo abbiamo dimenticato e che tutte queste teorie non sono altro che miseri tentativi di dimostrazione dell’ovvio? Di ciò che eravamo e che non siamo più capaci ad essere?


E poi c’è questa frase “Che occasione unica per reinventare il mondo. Grazie, crisi. J.Séguéla”. Qui si aprono altri scenari veramente infiniti. Nella nostra società si registra oggi un evidente indebolimento delle forze mentali e motivazionali degli individui. E’ evidente a tutti che sia il cervello a creare la cultura. Un po’ meno ovvio è il contrario: anche la cultura, a sua volta, plasma il cervello. Significa che le pratiche di vita, gli atteggiamenti, i modelli di comportamento premiati dalla nostra società modellano il nostro cervello e le nostre funzioni mentali. La “crisi” investe la società nel suo insieme, diventa un dato permanente con cui bisogna imparare a convivere. Un simile scenario, per essere affrontato, richiederebbe agli individui di poter disporre di grandi risorse interiori; risorse che oggi sono sempre più impoverite. L’impegno individuale, il potenziamento delle proprie risorse interne può “salvare il mondo” [14]. Ed è in questo panorama che si svolgono gli allenamenti del terzo millennio. Con individui schiacciati da problemi (mutuo, lavoro, bollette, conti …) che fondamentalmente non sono i loro, ma investono il loro modo di vivere. Chi riesce a far fronte a ciò, chi sviluppa una “resilienza”, una forza interiore prima che mentale atta a  contrastare l’inadeguatezza generalizzata, chi riesce a “ringraziare” la crisi e a tirare fuori il meglio di sé riesce ad adattarsi i maniera senza dubbio più funzionale. Supercompensa? Può essere anche questo parte del fenomeno. Non va trascurato nella programmazione di un allenamento.


Beh, un po’ di strada l’abbiamo fatta. Da un grafico che si arrogava il diritto di spiegare come organizzare l’allenamento, siamo giunti ad asserire che forse organizzare un allenamento è un qualcosa di “non-fattibile” o comunque di “poco-fattibile”, ma semplicemente si può cercare di organizzare delle attività che siano quanto più funzionali all’individuo che le pratica e quanto più puntate verso l’obiettivo che l’individuo auspica raggiungere. Mi permetto di dare un consiglio. Capisco che i consigli devono darli solo i vecchi saggi, ma vecchio lo sto diventando e quindi ho la presunzione di poter diventare anche saggio: le teorie dell’allenamento, quella classica e, anche quella moderna, vanno studiate. Alla nausea. Esiste la possibilità di utilizzare risorse solo qualche anno fa impensabili, quindi, non si possono avere scuse. Bisogna studiare. Ma, d’altro canto, l’uomo di scienza deve avere sempre, come insostituibile alleato, il dubbio. Quindi lo studio deve essere continuo, ma allo stesso tempo con la mentalità più aperta possibile. Mi piacciono le persone flessibili, nel senso di una mente flessibile, mi piacciono i cerchi e non i quadrati, mi piace chi si chiede “perché?” con l’ingenuità e la curiosità di un bimbo, ma con la testa di un adulto. In questo modo mi pongo davanti al, in questo caso, processo di allenamento. Con la consapevolezza che bisogna avere delle solide basi, ma che queste sono solamente un piccolo punto di partenza per innumerevoli strade. L’allenamento deve essere disegnato sull’atleta e con l’atleta, deve rappresentare chi lo svolge e, in parte, anche chi lo ha programmato, l’unione allenatore/atleta non può essere una dicotomia, ma deve essere l’avvicinarsi di due persone che risuonano insieme. Ecco, il consiglio migliore che posso dare è quello di cercare di vibrare all’unisono con la persona che allenate, se siete allenatori, o con il vostro trainer se siete sportivi, in questo modo si può creare un ponte tra ciò che la dice la scienza e ciò che la scienza, ancora, non riesce ad accettare.


Bisogna avere il coraggio di gridare “Il Re è Nudo!!! Il Re è Nudo!!!!”.

Siccome spero di essere un disturbatore di coscienze, lo grido: IL RE E’ NUDO!!!!!!!!!!!!


SL.A.



Bibliografia:

[1]: Preparazione atletica e riabilitazione Carli-DiGiacomo C.G. Edizioni Medico Scientifiche 2013

[2]: Allenamento Sportivo Bellotti-Matteucci ed. Utet 2004

[3]: Progettare l’allenamento sportivo Gollin-Vona Ed.Cortina 2004

[3b]: Metodologia della preparazione fisica Gollin ed. Elika 2014

[4]: Principi di metodologia del fitness Paoli-Neri ed. Elika 2010

[5]: Biologia dello sport Weineck  ed. CazettiMariucci 2013

[6]: Triathlon D’Amen-Benelli  ed. CalzettiMariucci 2002

[7]: Scienza e pratica dell’allenamento della forza Zatsiorsky-Kraemer  ed. CalzettiMariucci 2008

[8]: SdS rivista di cultura sportiva n°62/63 – Supercompensazione mito o realtà? Verkhoshanskij Y.-Verkhoshanskija N.

[9]: Strength&Conditioning rivista n° 13 – La storia della supercompensazione, tra leggenda e realtà. Evangelista P.

[10]: Teoria dell’allenamento Harre ed. Società Stampa Sportiva 1995

[11]: SdS rivista di cultura sportiva n°85 – La supercompensazione è ancora attuale? Hottenroth K.-Neumann G.

[12]: Scienza e Sport rivista n°27 – La supercompensazione e le sue falsità. Arcelli E.

[13]: Olismologia, la disciplina della sintesi Capello ed. Tecniche Nuove 2013

[14]: Tecniche di resistenza interiore Trabucchi ed. Mondadori 2014

Immagini:
L'immagine sopra al titolo ritrae Iron Cowboy James Lawrance mentre "Supercompensa" ;-) è tratta da: facet.interia.pl 

Fig.1: da bodyline.sitiwebs.com modificata

Fig2: da athleticlab.com modificata

Fig3: da allenamentofitness.com modificata

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