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domenica 18 settembre 2016

Il Cervello in fondo ai Piedi

IL CERVELLO IN FONDO AI PIEDI


Cosa significa elaborare un pensiero sulla facoltà di pensare? Solo i membri della nostra specie possono porsi questa domanda, poiché nessun altro organismo esistente sul pianeta ha la configurazione fisica o neurale per arrivarvi, anche solo lontanamente, vicino; inoltre, la risposta a questo interrogativo talvolta implica un complesso viaggio intellettuale, per quanto la sua destinazione sia saldamente ancorata nel cervello umano.
Esordisce così [1], splendido volume che, dal punto di vista evolutivo, indaga in che modo, cerebralmente, siamo diventati ciò che siamo.
Una battaglia durata alcuni milioni di anni dove, allo scopo di ottenere una propria nicchia ecologica, numerose specie di ominidi sono entrate in competizione le une con le altre. Un viaggio completato da un’unica stirpe della nostra famiglia zoologica, noi, in grado nel tempo di eliminare tutte le altre concorrenti al posto di protagonista del palcoscenico evolutivo.
È fuori di dubbio che “il cervello” sia stato un indiscusso protagonista di questa (trionfale?) cavalcata.
Il nostro cervello controlla virtualmente ogni nostra azione; dal punto di vista comportamentale ci rende ciò che siamo in qualità di individui unici, così come dal punto di vista collettivo è sempre lui che nella sua straordinarietà e assoluta novità consente alla nostra specie di essere quell’entità psicologicamente complessa, altamente selettiva e talvolta bizzarra che siamo [1].
Ma non è del cervello che voglio parlare oggi.
Rimanendo nell’ambito di un’analisi evoluzionistica, vediamo come approfondire la ricerca pone l’accento su di un’altra porzione del nostro corpo anzi, soprattutto sull’utilizzo di questa parte, come distintiva della nostra specie e come probabile candidata al ruolo di primo vero vantaggio evolutivo; andiamo a localizzarla nel posto più lontano dal cervello (curioso): il piede; diventare bipedi con un certo grado di efficienza si lega strettamente allo sviluppo del cervello, permettendo così quel salto in avanti che ci ha reso uomini.
Una rapida occhiata al piede:
26 ossa (!) di dimensioni e struttura differente permettono la massima efficienza in quelle che sono le due funzioni evidenti del piede: funzione statica (sopporta il peso del corpo); funzione dinamica (spostamento del corpo). L’integrità del piede assicura, dunque, un buon appoggio e una buona deambulazione.
31 articolazioni (!), più di 100 legamenti e 20 muscoli (!) (tra intrinseci ed estrinseci) ottimizzano la statica e la dinamica.
Parecchie migliaia di terminazioni nervose lo connettono, in pratica, con tutto l’organismo.
La perfetta collaborazione tra tutte queste strutture ha il fine ultimo di far funzionare al meglio questa porzione del corpo umano così forte e, nello stesso tempo, delicata nell’equilibrio che la caratterizza.
L’evoluzione dell’uomo, attraverso i milioni di anni che l’hanno disegnata, ha plasmato e integrato ogni cambiamento funzionale nello schema motorio, passando attraverso generazioni che hanno affinato l’anatomia attraverso l’utilizzo. Il piede, nella sua funzione, come già detto, prevalentemente motoria e di sostenimento del peso corporeo, assolve mirabilmente i suoi compiti anche grazie alle sue notevoli potenzialità propriocettive.
La forma del piede è dunque il risultato di tutto questo lavoro evolutivo ed è in stretta relazione alla sua funzionalità biomeccanica.
Come dimenticare, a questo punto, il ruolo neurofisiologico del piede (abbiamo parlato di migliaia di terminazioni nervose): il contatto al suolo permette dunque una duplice funzione, effettore (statico o dinamico) e sensoriale. Dal punto di vista sensitivo la pianta del piede è ricca di recettori cutanei (tattili), articolari e muscolari, che rappresentano una fonte insostituibile di informazioni estero e propriocettive per il controllo dell’equilibrio e della postura. È significativo rammentare che l’area corticale sensitiva del piede è superiore a quella della mano, mentre per l’area motoria accade il contrario (Homunculus di Penfield e Rasmussen).
In ultimo, ma non per importanza, il piede unisce la sua originalità biomeccanica, la sua efficienza neuro-muscolare al fatto che è inequivocabilmente una struttura tensegrile, cioè un sistema auto stabilizzante, ma capace di interagire in modo dinamico.
Sembrerebbe superfluo ricordare che noi camminiamo con i piedi, siamo appoggiati a terra con i piedi, ci muoviamo con i piedi ... l'importanza del piede non solo nella propria componente biomeccanica, ma anche neurosensoriale (propriocettiva ed esterocettiva) è oggi universalmente riconosciuto, tanto che è considerato, assieme agli occhi, l'ingresso primario del Sistema Tonico Posturale (l’insieme delle strutture neurofisiologiche del nostro organismo che regolano i rapporti tra il nostro corpo e il mondo che ci circonda costituisce il s.t.p.: ricevendo informazioni dagli occhi, dalla pelle, dai piedi, dai muscoli, dall'orecchio interno e dalla bocca, esso è continuamente in grado di conoscere la nostra posizione e di mettere in atto le necessarie variazioni del nostro "schema corporeo", così da rispondere sia alle necessità e stimoli previsti che a quelli imprevisti).
Ma quando abbiamo iniziato ad usare i piedi? Quando l’antenato dell’uomo moderno si è “alzato” dalla sua condizione di ominide e si è trasformato in Homo?
Beh, molto prima che il cervello iniziasse a crescere, a implementare le sue connessioni, molto prima che iniziassimo, quindi a “pensare il pensiero”.
Non è facile un viaggio a ritroso nel tempo che sia preciso ed inequivocabile, soprattutto quando i resti fossili sono pochi e si parla di milioni di anni di storia.
Orrorin Tugenensis è un ominide risalente a circa 5,5 milioni di anni fa, scoperto nel 2001. Riguardo al suo sistema locomotorio, lo studio di un paio di porzioni di femore ben conservate, farebbe pensare ad un bipedismo piuttosto sviluppato. Non tutti gli scienziati concordano in pieno con queste interpretazioni e nuove ricerche sono tutt’ora in corso [2].
Nel 2009 un’importante scoperta scuote il mondo paleoantropologico: Ardipitecus Ramidus, Ardi per gli amici, probabilmente una femmina di 120 cm per 50 kg. Il cervello è piccolo, Ardi vive ancora nella foresta, una foresta a chiazze, intervallata da ampie radure, molto probabilmente onnivoro, lo scheletro mostra caratteristiche di una creatura a suo agio nel movimento tra gli alberi (uso di mani e piedi, alluce opponibile), senza però essere un brachiatore (Gibbone) né un knulle walker (Gorilla o Scimpanzé). Sul terreno, invece, aveva una forma di bipedismo, chiaramente indicata dalla porzione più alta del bacino, dalla presenza di creste e spine atte a fornire punti di inserzione a legamenti e muscoli utili per sostenerlo nella stazione eretta, dalla presenza del foro occipitale in posizione più avanzata rispetto a quello delle antropomorfe [2, 3, 4]. Siamo a circa 4,5 milioni di anni fa.
Ovviamente la struttura del piede di Ardi non è come la nostra. Il suo piede è lungo e ricurvo come quello di un animale abituato ad arrampicarsi sugli alberi e con l’alluce opponibile; la struttura non ricorda particolarmente quella di una qualsiasi moderna scimmia antropomorfa, ma di certo quel piede non è neppure adatto a camminare [3].

E allora come camminava davvero Ardi? È difficile dirlo. Senza dubbio aveva una sua sorta di locomozione bipede, probabilmente non troppo efficiente; in questo momento si candida ad essere il più arcaico nostro antenato (in armonia con il suo nome Ramidus, derivato da Ramid, termine afar che significa radice; radice dell’uomo), anche se ulteriori studi sono senza dubbio necessari.
Il bipedismo è un tipo di locomozione molto raro, per non dire assente fra i primati attuali ed estinti. La varietà di modelli locomotori tra i primati è altissima, tanto da far affermare ad alcuni ricercatori che esistano tante forme di locomozione quante sono le proscimmie e le scimmie. In un quadro così ricco, il nostro bipedismo e la postura eretta che lo accompagna sono una mera eccezione, tanto da sembrare uno scherzo della natura. È vero, uno scimpanzé o un gibbone attuali, per brevi tratti, possono deambulare su due piedi, ma la costituzione corporea del bipede in postura eretta è nostre esclusiva peculiarità. Come la capacità di “pensare il pensiero”. Bizzarro, vero?
Le storie di Orrorin e Ardi, si perdono nel mistero e necessitano di ulteriori ricerche; i primi ominidi, Australopithecus e Paranthropus, invece, ci hanno lasciato qualche documento in più: il loro bipedismo sembra affiancarsi e non sostituirsi del tutto alla locomozione arboricola. Parliamo quindi di bipedismo facoltativo [2], intendendo un bipedismo affiancato dalla conservazione di proporzioni corporee tipiche delle scimmie antropomorfe. Sarà il genere Homo che vedrà affermarsi un bipedismo “obbligato” (ancora prima dell’espansione cerebrale) che verrà a rappresentare l’unica modalità locomotoria a nostra disposizione. In noi il bipedismo ha coinvolto tutto l’organismo, modificandolo, plasmandolo e rendendolo quello che attualmente è (o dovrebbe essere), possiamo affermare che in un certo senso siamo figli del bipedismo.
Gli accorgimenti anatomo-funzionali (posizione e forma del bacino, utilizzo della muscolatura glutea, posizione del foro occipitale, curve della colonna vertebrale, forma dell’osso sacro, conformazione di femore e tibia, trasformazione del piede da organo prensile a “macchina” sensoriale, formidabile piedistallo, elemento dinamico specializzato, … potete approfondire in bibliografia) creatisi nel passaggio al bipedismo ci hanno reso uomini (potete, se siete curiosi, approfondire qui: ( http://www.nature.com/nature/journal/v432/n7015/full/nature03052.html http://www.nature.com/news/2004/041115/full/news041115-9.html ), hanno, probabilmente, anche reso possibile lo sviluppo cerebrale successivo; l’uomo si è evoluto grazie al movimento. Muoversi è parte di noi, come il cuore che batte, come il cervello che pensa.
Ma torniamo un attimo indietro. Torniamo al genere estinto Australopithecus.
Lucy, è forse la scoperta più famosa in campo paleoantropologico. Con una piccola ricerca in rete potete scoprire tutto su di lei, il suo scheletro è quello rappresentativo di Australopitechus Afarensis. A questa specie vengono anche attribuite le impronte di Laetoli, in Tanzania. Si tratta di una pista di almeno 20 m composta da due file di orme lasciate da primati bipedi circa 3,6 milioni di anni fa. Queste si sono poi fossilizzate nell’esteso tratto di cenere vulcanica cementato (tufo) di cui è composta la stratigrafia del sito. Le piste, scoperte nel 1978, sono state recentemente sottoposte ad un elaborato intervento di conservazione e protezione (che ha incluso riti di “sacralizzazione” dell’area per cui sono state coinvolte le popolazioni locali Masai). È stato quantomeno un atto dovuto, visto che si tratta della testimonianza più suggestiva riguardo alla locomozione bipede dei nostri remoti antenati [2]. Questo reperto è estremamente affascinante perché dalla ricostruzione risultano due individui bipedi di taglia diversa che camminano: il grosso maschio e la femmina, decisamente più minuta; sono uno al fianco dell’altro, probabilmente in contatto fisico (a braccetto?). C’è poi un terzo individuo, anch’esso piccolo, forse immaturo, magari un cucciolo, quasi sicuramente, perché fa una cosa buffa: cammina quasi saltellando, per mettere i piedi nelle impronte lasciate dal più grande dei due genitori. Lo trovo bellissimo. E toccante.

Torniamo a noi. Torniamo al bipedismo.
Perché bipedi? Si chiede [3]. È da tempo fonte di dibattito il motivo che avrebbe spinto i nostri lontani parenti di 4 milioni di anni fa ad acquisire questa nuova postura. I vantaggi di questa modalità di spostamento non sono così ovvi, mentre gli svantaggi iniziali (per esempio la perdita di velocità in un ambiente ad alto tasso predatorio) sono chiari.
Già a metà del diciannovesimo secolo Darwin provava a dare una spiegazione e aveva associato il bipedismo degli ominidi con la liberazione delle mani, una novità utile per modificare oggetti e realizzare strumenti. Tale proposta è stata poi ampliata con la capacità di trasportare cose, cibo incluso, su lunghe distanze.
Oggi sappiamo che queste sono delle conseguenze “tardive” del bipedismo, poiché la nostra capacità di realizzare utensili si è sviluppata ben dopo aver adottato questa forma locomotoria.
La varietà degli altri ipotetici vantaggi è comunque vasta: aspetti energetici (sembra che muovendosi in piedi e lentamente si riuscisse a risparmiare energia), anche se è un argomento tutt’ora controverso; termoregolazione: in stazione eretta l’area esposta al sole è decisamente ridotta rispetto ad una posizione quadrupedica, riducendo al minimo l’assorbimento di calore. Inoltre, tenendo la maggior parte della superficie corporea lontana dal terreno si massimizza l’esposizione ai venti freschi. Tale interpretazione appoggia l’idea che la postura eretta possa essere in qualche modo associata alla riduzione del pelo [4]. Anche questa spiegazione ha però dei lati oscuri poiché numerosi resti fossili sono stati rinvenuti in ambienti di foresta o boscaglia, quindi con ampie possibilità di stare all’ombra. Lo stesso motivo mette un po’ da parte l’ipotesi un tempo popolare per cui gli ominidi si sarebbero “alzati” per vedere oltre le piante erbacee della savana e scorgere eventuali predatori.
Altre ipotesi mettono in relazione la capacità di camminare eretti con determinate forme di comportamento sociale. Si è ipotizzato, ad esempio, che i maschi dei primi ominidi bipedi potevano spostarsi per trovare cibo, poi, avendo le mani libere, potevano portarlo alle loro compagne, più limitate negli spostamenti a causa del peso dei piccoli (è stato anche ipotizzato che il bipedismo renda più semplice portare i figli con sé).
L’elenco dei presupposti vantaggi (e delle obiezioni agli stessi) potrebbe andare avanti per ore. Forse non c’è neppure un “perché” siamo diventati bipedi. Probabilmente la trasformazione dell’ambiente di vita ha accompagnato questa nostra transizione. Una volta però acquisita questa postura tutti i vantaggi da essa derivati (e tutti gli svantaggi) sono stati ottenuti. E da quel momento la nostra vita non è stata più la stessa.
Il misterioso viaggio fino a diventare Homo, dura  un paio di milioni di anni. Da circa 4 Ma a circa 2 Ma, i cambiamenti sono minimi. Poi, quasi improvvisamente, arriviamo noi, o meglio, una forma arcaica di noi, ma terribilmente simile nella conformazione fisica. Cacciatori/raccoglitori, onnivori, bipedi e “decatleti”. Si impone l’essere umano come adattamento evolutivo vincente. Le sue caratteristiche? Si muove molto (cammina, corre, salta, trascina, spinge, lancia … schemi motori di base) e pensa.
Mi piace credere che l’utilizzo della postura eretta e del movimento che ne consegue, siano la caratteristica che ha reso possibile il dominio della nostra specie o almeno la caratteristica che ha dato il via a tutti gli adattamenti utili ad ottenere questa posizione di supremazia (o supposta tale). Il piede come “miccia” che ha acceso il cervello. Lo trovo particolarmente affascinante.
Se da tutta questa storia dobbiamo trarne un insegnamento, questo è che rinunciare a muoversi significa perdere parte importante della nostra umanità, compresa quell’abilità cerebrale di cui andiamo tanto fieri.
Apro un’ultima parentesi.
Evoluti per correre?
Se avete letto con attenzione, nei due link che ho citato in precedenza, si fa riferimento alla teoria (abbastanza intuitiva, se ci pensate bene) che vede la corsa di resistenza e l’evoluzione dell’uomo procedere a braccetto.
Camminare a lungo ed in maniera efficiente per un cacciatore/raccoglitore nato un paio di milioni di anni fa doveva essere cosa assolutamente fondamentale, così come la capacità di aumentare la velocità di questa forma locomotoria, fino a farla diventare una sorta di primordiale, terrorizzata (scappare dai predatori poteva essere poco divertente), disorganizzata corsa.
Le prove [5] di una veloce specializzazione dei nostri progenitori nella corsa prolungata a velocità moderata sono però molte. Oggi corriamo per divertimento, per gioco, per tenerci in forma, ma questo bisogno ancestrale ricalca quella che in passato era la lotta per il cibo. Proviamo a catapultarci un attimo, con la mente (riusciamo ad essere in grado di immaginare anche grazie a queste nostre corse primordiali, ricordate?), nella savana africana. Per colazione non abbiamo le “gocciole” come una simpatica (quanto fuorviante) pubblicità vuole farci credere; siamo in caccia e i nostri competitori sono belve di svariati quintali in grado di muoversi a più di 70 km/h. In mezzo a queste efficientissime macchine da caccia si muove un essere gracilino (quantomeno in rapporto a questi animali), che invece di zanne e artigli affilati come rasoi, cammina su due gambe e tiene in mano un bastone appuntito o qualche pietra. Si dovesse scommettere, beh, non ci sarebbero dubbi … uomo k.o. al primo round. Quello che però non abbiamo considerato è che questo individuo bipede può pensare (anche se non ancora in maniera moderna), organizzare strategie e sfruttare una capacità che sta, poco per volta, mettendo a punto: la corsa di resistenza. Senza entrare troppo nello specifico, [5] illustra mirabilmente la “caccia di persistenza”. Questa tecnica sfrutta le capacità umane di corsa a velocità moderate, soprattutto in due caratteristiche: la velocità di corsa umana è mediamente quella che costringe ad un quadrupede di passare dal trotto al galoppo; mentre ciò avviene l’uomo ha la possibilità di raffreddare il proprio organismo grazie al sudore, mentre gli animali a quattro zampe riescono ad abbassare la loro temperatura solamente ansimando, cosa che però gli è impedita mentre galoppano; devono fermarsi, quindi.
Immaginate la scena: un gruppo di cacciatori di persistenza sceglie un grosso mammifero (spesso il più grosso) da inseguire durante le ore calde della giornata. Inizialmente l’animale scappa galoppando e cerca di nascondersi in un posto ombreggiato, dove può fermarsi e recuperare. I cacciatori, seguendo le tracce, lo braccano, iniziano a correre e, spaventano la preda che, anche se non è del tutto rinfrancata dal riposo inizia nuovamente a galoppare. Questo ciclo si ripete parecchie volte dove l’uomo alterna camminata veloce alla corsa fino a quando l’animale non stramazza esausto e con la temperatura corporea a livelli letali. In questo modo diventa facile, anche senza armi sofisticate, ucciderlo. Spesso queste battute si protraevano per decine di km. Tutt’oggi sopravvivono popolazioni di cacciatori/raccoglitori che utilizzano questa tecnica [5].

Se siamo corridori eccezionali su lunghe distanze lo dobbiamo all’eredità lasciataci da H.Ergaster, un “prozio” vissuto 2 milioni di anni fa.

E come correva questo nostro lontano parente? A livello fisico era già molto simile all’uomo moderno, quindi è facile pensare che la tecnica di corsa fosse simile a quella attuale. In una visione romantica lo immagino a piedi nudi, sfiorare il terreno con il mesopiede, in modo da poter sfruttare una buona spinta elastica garantita da una sinergia muscolo-tendinea pronta e funzionale, la falcata, elegante, mette in evidenza la muscolatura tornita degli arti inferiori, un “core” scolpito e una inaspettata coordinazione tra parte superiore ed inferiore del corpo, spinto alla massima efficienza da un cervello in crescita e dal volto sorridente.
CONCLUSIONI
Abbiamo visto come “siamo ciò che siamo”, unici nel panorama zoologico del globo terraqueo, grazie alle nostre facoltà cerebrali; gli unici a poter “pensare il pensiero”, in grado di immaginare. Il cervello, grazie ad una alimentazione via, via sempre più ricca in proteine nobili e grassi essenziali, strabordante di acqua biologica, vitamine, fibre e minerali cresce in maniera esponenziale triplicando il proprio volume da “Lucy”, Australopithecus Afarensis, fino a Homo Sapiens, parallelamente o, meglio, conseguentemente all’affermarsi della postura eretta e, soprattutto dell’andature bipede. La capacità di muoversi e di compiere “attività fisica” è dunque la caratteristica che ci rende evolutivamente vincenti. Gli altri adattamenti, soprattutto quelli cerebrali, ci consentono di diventare “dominatori” (con tutti i pro e contro che questo ha, storicamente, comportato).
Muoversi è irrinunciabile per l’essere umano: ci rende vivi, ci rende “umani” nel senso più ampio del termine, ci appartiene in maniera viscerale. Muovetevi il più possibile, in maniera intelligente, cercando di rivivere quelle sensazioni trionfali che dovevano permeare il nostro spirito agli albori; scoprite e sperimentate con il vostro corpo, sfruttandolo nella maniera più globale possibile: correndo, sollevando, camminando, rotolando … facendo, cioè, quello che ci ha reso uomini. In un’accezione moderna, lo definiremmo: Allenamento Funzionale ma, tutto sommato, non ha bisogno di definizioni. È semplicemente vita.
SL.A

>La lepre un giorno si vantava con gli altri animali: Nessuno può battermi in velocità - diceva - Sfido chiunque a correre come me. -La tartaruga, con la sua solita calma, disse: - Accetto la sfida. -Questa è buona! - esclamò la lepre; e scoppiò a ridere. -Non vantarti prima di aver vinto replicò la tartaruga. - Vuoi fare questa gara? -Così fu stabilito un percorso e dato il via.
La lepre partì come un fulmine: quasi non si vedeva più, tanto era già lontana. Poi si fermò, e per mostrare il suo disprezzo verso la tartaruga si sdraiò a fare un sonnellino. La tartaruga intanto camminava con fatica, un passo dopo l'altro, e quando la lepre si svegliò, la vide vicina al traguardo. Allora si mise a correre con tutte le sue forze, ma ormai era troppo tardi per vincere la gara.
La tartaruga sorridendo disse: "Non serve correre, bisogna partire in tempo."<
Esopo

Bibliografia
[1] Brain - Il cervello istruzioni per l'uso - DeSalle - Tattersall - Codice Edizioni - 2013
[2] Il grande racconto dell'evoluzione umana - Manzi - Il Mulino Edizioni - 2013
[3] I signori del pianeta - Tattersall - Codice Edizioni - 2013
[4] Il cammino dell'uomo - Tattersall - Bollati Boringhieri Edizioni - 2011
[5] La storia del corpo umano - Lieberman - Codice Edizioni - 2014
Le immagini sono tratte da:
www.osstefanelli.com
it.wikipedia.org
ilfattostorico.com
www.storiediscienza.it
www.thehistorytemple.com

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