DOPING, LATTE E CIOCCOLATO
“it’s not the end of the world, my dog will still lick my
face whether I win or lose; non è la fine del mondo, il mio cane continuerà a
leccare il mio volto, sia che vinca sia che perda”. Matt Biondi (dopo aver
perso il titolo olimpico a Barcellona ’92).
Questo è lo sport in cui credo: massimo impegno e massima
serenità, forza fisica accompagnata da forza mentale, un progredire non solo
come atleti, ma come uomini.
Siamo inevitabilmente un popolo di tifosi. Bisogna
schierarsi, sempre, senza mezze misure, senza essere informati, senza nemmeno
sapere di cosa si sta parlando, in fondo anche un romanzo fantasy di un paio di
millenni fa, poneva la scelta lasciata al pubblico come elemento centrale:
“Gesù o Barabba?”.
Credo che faccia parte, quindi, della nostra cultura:
passiamo elegantemente dal sapere tutto sui vaccini o sui rischi tumorali
legati a un tipo o un altro di alimentazione, fino a immedesimarci anima e
corpo in una squadra sportiva “abbiamo vinto!”, per giungere alle recentissime
sparate da opinion leader sul doping, sul suo utilizzo, sbraitando sentenze e
incensando innocenti e colpevoli senza alcun ritegno.
Mai uno straccio di documentazione, di ricerca, di
informazione approfondita; parecchie banalità e luoghi comuni. Il sottofondo
della peggior anticultura social.
“Io di latte ne capisco!” pausa ad effetto “E anche di
cioccolato”.
Lo stesso accento dei doppiatori di Hitler nei film sul
nazismo, una morsicata minuscola e schifata al “gustosissimo” Pinguì della
Kinder, aria bonaria, camicia a quadri e consumata esperienza contadina nel
travasare (inutilmente?) il latte da un contenitore a un altro.
Sembra strano, ma se penso ad Alex Schwazer, mi viene in
mente prima di tutto questo spot, prima dei successi sportivi, prima della
fidanzata cessa, prima dello scandalo doping.
Doping: Sono varie le possibili origini della parola doping.
Una di queste è il lemma dop, bevanda alcolica usata come stimolante
nelle danze cerimoniali nel XVIII secolo del sud dell'Africa.
Un'altra è che il termine derivi dalla parola olandese doops (una salsa
densa) che entrò nello slang americano per indicare la bevanda con la
quale i rapinatori drogavano le loro vittime mescolando tabacco
e semi della Datura stramonium, o stramonio, che contiene
alcuni alcaloidi
del tropano,
causando sedazione, allucinazioni e confusione mentale. Fino al 1889 la parola dope
era usata relativamente alla preparazione di un prodotto viscoso e denso di
oppio da fumare e durante gli anni novanta del XIX secolo allargò il proprio
significato ad indicare qualsiasi sostanza narcotico-stupefacente. Nel XX
secolo “dope” veniva anche riferito alla preparazione di droghe destinate a
migliorare la prestazione dei cavalli da corsa.Il significato più comune è: Illecita assunzione o somministrazione ad
atleti o ad animali di sostanze eccitanti o anabolizzanti che migliorano
artificialmente le prestazioni in gara.
Proviamo, usando
le stesse fonti a definire anche la parola sport: l'insieme delle attività,
individuali o collettive, che impegnano e sviluppano determinate capacità
psicomotorie, svolte anche a fini ricreativi o salutari; ogni attività fisica
praticata secondo precise regole, spesso in competizione con altri.
Interessante
l’etimologia: Il termine sport è l'abbreviazione della
parola inglese disport che significa divertimento. La
parola disport deriva dalla parola antica francese desport che
ha lo stesso significato. La parola francese antica desport deriva
dal latino deportare, composizione della parola de,
che significa allontanamento, e portare, proprio del suo
significato. Quindi deportare significa portarsi
lontano, e questo portarsi lontano stava a
significare uscire fuori porta dalle mura cittadine per svolgere
attività fisiche. Le parole desport e disport poi
divenuto sport, come detto significano divertimento, parola che
deriva dal verbo latino divertere che significa allontanarsi.
Difficile
equivocare. Sport e doping nella stessa frase non dovrebbero nemmeno starci o
forse, visto il contorto animo umano, sono facce della stessa medaglia.
Siccome non mi
appartengono i facili schieramenti dettati da immediate reazioni emotive, probabilmente
è un mio difetto, pazienza, uno dei tanti, difficilmente mi accontento delle
spiegazioni mediatiche, preferisco scavare ed approfondire (Dig On) un po’ su
ogni argomento di discussione che stuzzichi il mio intelletto; le eburnee
certezze hastag mediate (#iostocon …) o le forcaiole esclamazioni salvini
mutuate: radiato a vita! Vai a zappare! Ruspa! (ha sempre il suo fascino),
buttate lì a caso, tanto per prendere qualche like social, mi fanno un po’
ridere. Un po’ tanto ridere. Anche in quest’occasione, quindi, la mia analisi
nasconde un ragionamento cerebro/mediato che, tanto per cambiare, racconto
sotto forma di una storia, così avete anche la scusa per non leggere.
Conobbi il doping nel 1988. Seconda superiore credo, in
precedenza ne avevo sentito parlare un po’ così, nei discorsi “da bar” e in
“Rocky IV”, quando viene praticata l’iniezione a Ivan Drago; in quell’anno,
invece, si palesò alla mia conoscenza con un nome e un cognome destinati a
diventare storia. Ben Johnson.
C’erano le Olimpiadi a Seoul, Corea, le Olimpiadi di
Gelindo Bordin, ma soprattutto di Giovanni “Flash” Parisi, forse il mio primo
vero idolo sportivo, il cui ricordo mi commuove tuttora.
L’atletica, come sempre, ha un fascino particolare, le
finali emozionano, soprattutto quelle delle discipline veloci. Ci sono i 100
metri.
Gli atleti sono fermi sui blocchi di partenza; mi
colpisce quell’uomo al centro della pista, un ammasso di muscoli, un cubo di
cemento con un chilogrammo di collana d’oro al collo, nomen omen Ben, come Ben
Grimm, “La Cosa” dei Fantastici Quattro; noto la posizione delle braccia,
appoggiate troppo larghe sulla linea di partenza, i piedi messi stranamente, quasi
affiancati l’uno all’altro, la testa alta, gli occhi vuoti. Vuoti e gialli … quel
volto mi rimarrà impresso anche nei momenti a seguire, quando con uno scatto
inumano, salterà come una belva sul tartan coreano per andarsi a prendere un
titolo Olimpico con un tempo da record del mondo che sarebbe da medaglia ancora
oggi.
Ovviamente tre giorni dopo l’annuncio della positività a
una sfilza di ormoni, titolo e record cancellati. Atleta cancellato. Poco
importa se tutti gli altri finalisti prima o dopo abbiano avuto guai con la
“giustizia sportiva”, poco importa se, una volta scontata la squalifica, il
vecchio Ben si ripresenta goffo e lento sulle piste e viene ri-squalificato, a
vita questa volta, poco importa se, pur esibendo documenti e testimonianze di
un possibile “Golpe” nei suoi confronti, tenta una improbabile, quanto
infruttuosa difesa. Era colpevole e doveva pagare.
Nessuno “è stato” con Ben.
A me era simpatico.
Il secondo tete-a-tete con il doping lo ebbi, invece, in
quinta superiore, è stato un episodio così, sul momento non mi ha scosso, ci ho
ripensato però, spesso in seguito. Ricordo il vanto del professore di chimica
analitica strumentale (non ricordo il nome preciso della materia) quando
raccontò come “Il Cannibale”Eddy Merckx fu trovato positivo durante il Giro
d’Italia, nella tappa con arrivo a Savona, proprio nei laboratori dove stavamo
lavorando noi. Siccome la vicenda è curiosa, invito ad approfondire, per
esempio qui: http://archiviostorico.gazzetta.it/1999/giugno/06/Merckx_positivo_cacciato_dal_Giro_ga_0_9906069133.shtml?refresh_ce-cp
. Erano in parecchi, e parecchio importanti a “stareconEddy”.
Comincia in me, probabilmente solo nel profondo, ancora
non me ne accorgo, un cambiamento di scenario per quel che riguarda il mio
rapporto con lo sport “professionistico”, mi appassiona, ma con distacco,
diciamo così. Diciamo una sorta di nuova consapevolezza.
Alcuni anni dopo, in una stranamente serena giornata, in
un famoso campo di atletica, in una importante città del nord Italia, un gruppo
di ragazzi sta macinando qualche giro di pista per riscaldamento.
Sono studenti dell’ISEF durante la pratica della materia
“Teoria, Tecnica e Didattica dell’Atletica Leggera”. Nella pedana dei lanci si
sta allenando Diego Fortuna, primatista italiano del lancio del disco, una
montagna umana, mentre nella pista chiusa prova le partenze un piccoletto dalle
cosce enormi, non ricordo il nome, ma è primatista italiano sui 60 metri piani.
Preambolo solo per far capire la qualità dell’ambiente.
Chissà per quale motivo, ma i ragazzi e il loro docente
(di cui non faccio il nome), tecnico federale (credo che avesse anche le
mutande loggate Fidal) parlano di doping. “Ma voi credete ancora che esista
sport di alto livello pulito?” piccolo terremoto sotto i piedi, “gli atleti
sanno come e quando farsi e come eludere i controlli” grande terremoto sotto i
piedi. Di quella mattinata non ricordo null’altro.
Mi suona in testa una frase, motto di qualche team di
lottatori americani: “più duro è il contatto, maggiore è la consapevolezza”. Eh
già. Continuo ad acquistare consapevolezza.
Intanto, in quello stesso periodo c’è un certo Marco
Pantani a infiammare le calde estati sportive italiane. Le sue imprese
sportive, così come quelle private (?!), diventano leggenda. E mai come in
questo caso la parola leggenda assume un significato particolare.
Quasi parallelamente al “Pirata di Cesenatico”, su cui
torneremo a breve, esplode un altro fenomeno, Il Fenomeno, “Le Roi Americain” chiamato
così e amato/odiato dai francesi per aver devastato la corsa a tappe più dura
al mondo, il Tour de France, per 7 volte di fila: Lance Armstrong.
Mi innamoro della sua figura, il cow boy, dal passato
difficile, abbandonato dal padre, picchiato dal patrigno, trova nello sport, il
triathlon, un’ancora di salvezza; il passaggio alla bici e, giovanissimo,
diventa campione del mondo di ciclismo con una corsa sconsiderata e folle, si
ammala di tumore e rischia la pelle. Anche se devastato dalle cure (un bell’ossimoro),
ritorna in bici e … vince. Stravince. Come non lasciarsi coinvolgere?
Il best seller “It’s not about the bike” commuove e
stravolge le coscienze facendo leva sui punti deboli dell’animo umano,
coinvolgimento emotivo per la vicenda umana, trasporto emozionale per le
imprese sportive.
Diventa personaggio pubblico, una macchina da soldi,
ricchissimo, ha una fondazione per finanziare la ricerca sul cancro e aiutare i
malati (www.livestrong.org ), amicizie
politiche equivoche (gioca a golf con la famiglia Bush), parla e tutti
tacciono, tutti ascoltano. Lo accusano di doping, ma non viene mai trovato
positivo. Si ritira e poi ritorna a correre, ma ormai è nel centro del mirino.
Si scava sempre più prepotentemente nel suo passato; poco per volta viene
condotto con le spalle al muro. Confessa. “Si, ho fatto uso di doping” (senza
piangere, dignitoso, forse consapevole di ammettere ciò che era normale). Gli
vengono “tolti” i 7 Tour. Poco importa se non saranno poi assegnati a nessuno
perché anche tutti gli altri classificati tra i primi hanno avuto squalifiche
per doping, poco importa se ad accusarlo violentemente sono soprattutto suoi ex
compagni di squadra, squalificati a loro volta per doping. Lance è colpevole e
deve pagare, forse più salato di qualunque altro atleta, ma deve pagare.
Nessuno, o almeno pochissimi “stanno con” Lance.
Di cosa stiamo parlando? Di sport? Uhm, non credo.
Almeno, non credo a questo tipo di sport.
Il termine sport perde sempre più il significato di
divertimento, per abbracciare con forza quello di “portarsi lontano”, distante
da quell’ancestrale piacere del movimento, da quel “sia che vinca, sia che
perda” così normale, ma così profondo.
Torniamo a Pantani che nel frattempo si toglie la vita.
Non entro nel merito della vicenda, enorme dispiacere per un ragazzo poco più
vecchio di me. Non sono mai stato un suo grande tifoso, mi esaltavano le sue
sgroppate fiammeggianti, ma non posso dire di aver parteggiato per lui.
La storia di Marco Pantani è, però, quella dei suoi
tifosi, per i quali (e, a mente fredda, direi anche per me) da subito è stato
vittima di un grande complotto (mafia delle scommesse, in primis) e offerta sacrificale
per salvare un sistema corrotto fino al midollo. Ricordo che anche Marco
Pantani non è mai stato trovato positivo.
In quel periodo, però, c’è un altro corridore italiano
(gregario di Pantani) che subisce vicende simili (incredibilmente simili) a
quelle del più famoso Pirata.
Valentino Fois: “prendevo quello che prendevano tutti,
chi nega è un bugiardo” (G. e P. Viberti – L’ultimo Avversario – Società
editrice Internazionale Torino – 2008). “prendevo prodotti per migliorare il
mio rendimento, come più o meno facevano tutti gli altri ciclisti
professionisti” ammette Valentino “il mondo del ciclismo era una schifezza”.
“Gestivano tutto i medici e i direttori sportivi”. Sei mesi dopo questa
intervista, avvenuta a fine carriera, dopo la squalifica per doping, la vita di
Valentino Fois termina misteriosamente nella sua camera da letto, forse
stroncato da un infarto. Aveva 35 anni.
Nessuno è stato con Valentino.
“Bestie da Vittoria – Piemme 2016 – Autore Danilo di
Luca”. Un libro che ho letto in un pomeriggio. Il “Killer di Spoltore”,
ciclista professionista di altissimo livello, pluri-squalificato per doping, in
un’analisi lucidissima e terribile sul mondo dello sport (ovviamente del
ciclismo, ma per estensione dello sport professionistico) e sul doping di stato
che, erroneamente, abbiamo sempre attribuito agli atleti dell’est Europa,
quando invece è “Cosa Nostra”. Nemmeno a sottolineare, come nessuno “sia stato”
con Danilo.
“Più duro è il contatto, maggiore è la consapevolezza”,
ricordate? Il distacco con cui ammiro le gare sportive è pressoché totale.
L’ammirazione è profonda, il coinvolgimento emotivo, minimo. Lo sport
professionistico o, in senso più lato, di altissimo livello, lo considero un
qualcosa che esula dalla mia comprensione, mi perdo, senza fiato, a guardare
questi uomini (uomini e donne, ovviamente), questi iper-umani, macchine
perfette, che, forse anche giustamente, non sono in grado di dirlo, si
“alimentano” con carburanti speciali; non è sport, almeno quello che io intendo
per sport, è qualcosa di diverso e che quindi diversamente deve essere
trattato.
Veniamo alla cronaca.
Il caso Schwazer non è né più, né meno, una lineare
continuazione di quelli che l’hanno preceduto.
Chi è il personaggio in questione? Atleta italiano,
specializzato nella marcia, già campione Olimpico a Pechino, nel 2008.
Carabiniere (da definizione, doparsi è una pratica
illegale) oltre che contadino, come vedevamo negli spot Kinder, come quasi
tutti gli atleti beccati positivi, ha giurato di non averlo mai fatto, per poi
ritrattare; la sua fidanzata, pattinatrice famosa, squalificata con lui perché
lo copriva durante le sue assenze ai controlli a sorpresa.
Alex si faceva di EPO (eritropoietina) ricombinante, un
ormone che in clinica si usa principalmente per curare le anemie dei pazienti
in emodialisi e sui pazienti con insufficienza renale cronica, e nella cura
dell’anemia per insufficienza cardiaca, dell’anemia neonatale e nelle anemie
causate da patologie tumorali www.albanesi.it
www.wikipedia.org www.corriere.it ).
Schwazer sconta la sua pena, nel frattempo viene
congedato dai carabinieri e dalla Ferrero (addio feroci morsicate di Pinguì e
travasi di latte). Nessuno sta con Alex, e forse è anche giusto così, anche se
la speranza che rientri in forma per le Olimpiadi di Rio è forte.
Il casino scoppia qui: durante la squalifica il campione
altoatesino entra in rapporto collaborativo stretto con Sandro Donati, persona
seria e con una forte morale, allenatore di atletica prestigioso, ex membro
della WADA (agenzia anti doping) e del centro sperimentazione e ricerche del
CONI. Soprattutto persona onesta (https://it.wikipedia.org/wiki/Sandro_Donati
). Da questo punto in poi non si capisce più nulla, salta fuori un’altra positività,
ma la vicenda è quantomeno strana, con ampi spazi nebulosi; ricorsi e contro
ricorsi non portano a nulla, se non ad un’ulteriore squalifica per il nostro e,
quindi, addio Olimpiadi.
Si sbraita ad un nuovo caso Pantani (e tutti gli altri?),
esce in rete l’hastag #iostoconalex, che subito diventa virale, anche tra chi
non ha capito un cazzo (forse è più importante far parte di qualcosa, che
capire veramente di cosa si vuole fare parte). Gli italiani, da economisti dopo
Brexit, a C.T. dopo gli Europei di calcio, a intelligence anti-terrorismo dopo
gli attentati, ovviamente in un attimo diventano: chi biochimici che sanno
tutto su emivita dei campioni e alterazione degli stessi, chi complottisti che,
tra una scia chimica e l’altra, cercano di sgominare l’agguato al povero Alex.
Ah, non dimentichiamo i soliti fatalisti: “si è fatto ribeccare, che coglione”.
Loro si che la sanno lunga.
Ecco, torniamo seri.
Il doping esiste, inutile negarlo, endemico e capillare.
Ogni tanto qualcuno viene trovato positivo, spesso paga il suo debito e molto
spesso ritorna a gareggiare. Probabile che alcuni degli effetti dei medicinali
assunti permangano anche a distanza di tempo (massa muscolare, capacità
aerobica …), ma non mi interessa. Probabile anche che, una volta riabilitati,
tornino a farsi, non tanto per debolezza o poco carattere, queste sono scuse
finte come il sorriso di un’atleta di nuoto sincronizzato durante la
performance, ma perché è ciò che richiede il “sistema”, intendendo società, Federazioni,
Comitati.
Non esiste un caso Schwazer, non può esistere un
#iostoconalex, anche se è piuttosto facile schierarsi, perché Alex Schwazer ha
scelto anni fa la sua strada, quando ha deciso di diventare atleta
professionista, sobbarcandosi tutti gli onori, ma anche tutti i terribili
oneri, che vanno ben oltre un po’ di popolarità e qualche paparazzo. Si entra a
far parte di un loop infernale, dove l’uomo perde di valore e diventa stregua
di una macchina. Una macchina da soldi, da prestigio, da potere.
La sporcizia, profonda, macchia indelebilmente un mondo
luccicante, ma poco prezioso, pirite che annebbia e ottenebra i sensi, cercando
di sostituire l’umana coscienza.
Si, a rileggerlo, fa un po’ paura.
Che poi sei in palestra “ma per diventare grosso, cosa
posso prendere?”. Questo è ciò che passa, a livello mediatico. Gatlin enorme,
squalificato, riammesso, corre, vince, fisico della madonna. Il confine tra
preparazione biologica e doping, a questo punto diventa sottilissimo. Anche
questo fa paura.
Quello che mi auguro? Un cambio di paradigma. Nel mio
piccolo cerco di fare pensare, di insegnare a non trarre conclusioni
causa-effetto, che non esistono quasi mai, ma usare il ragionamento affinando
un collaudato meccanismo cerebrale ed impreziosendolo con l’istinto primate.
Cerco di educare, nel senso profondo di e-ducere, condurre fuori da un
meccanismo malato, del quale non voglio assolutamente essere complice. Si torna
sempre lì, a quel “fotti il sistema, STUDIA”.
Sono qui seduto, con il pc sulle gambe e le Olimpiadi in
tv. Vedo “mostri” bellissimi correre cento metri a velocità supersonica;
rimango un attimo estasiato, quasi come guardassi una gara fra automi. Vorrei,
solo per un secondo, entrare nelle loro teste, sia in quelle delle vincitrici sia
in quelle delle sconfitte. Cosa pensano? Cosa provano?
Un ultimo pensiero, questo polemico, corre verso un mio
amico, che più di vent’anni fa girava per Varigotti con mezza barba fatta e
mezza incolta. Non si stupisce nessuno se dico come fosse additato da coglione.
Ebbene, alla stessa stregua considero il fascinoso saltatore in alto che tanto
sbandiera la sua mezza barba e tanta merda sta sparando su atleti come lui:
primo, la mezza barba la portava con più stile Yuri, secondo, a me risulta
molto più sospetto un infortunio da parte del favorito ad un mese dalle
Olimpiadi, in una gara già vinta, provando un salto rischioso ed inutile, che
tutte le provette più o meno manomesse da parte dei Nas al povero Schwazer. Chiudi la bocca, per favore.
Finisce qui la storia. E come tutte le storie che si rispettino,
le diamo un lieto fine grazie al pensiero di uno dei più grandi atleti della
storia, il più grande triplista di sempre:
“A volte nel letto, prima di addormentarmi, mi viene da
pensare che mi guadagno da vivere facendo dei balzi e atterrando sulla sabbia.
Am I doing anything worthwhile? Sto facendo qualcosa di meritevole? Non credo,
è l’inutilità assoluta. Quando penso ai medici che vanno in Rwanda mi dico: -
They’re making a difference, but I’m jumping into a sandpit, loro fanno
qualcosa di speciale, di differente, mentre io salto nella sabbia …-“
J.Edwards.
No Dope.
SL.A.
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