SCIENZE MOTORIE, OSTEOPATIA E LO STUDIO DEL MOVIMENTO
Un viaggio nel mio concetto di movimento.
Siamo il ritratto del nostro vissuto. Tutto ciò che ha fatto parte della nostra vita, da 1000 giorni prima della nascita (quindi abbondantemente prima del concepimento …) al momento presente, costituisce un patrimonio estremamente personale che rende unico ogni individuo (indivisibile, appunto) nella sua semplice complessità corpo/mente, nel suo essere la variabile di uno schema, nel suo essere eccezione e, dunque, eccezionale.
Uno degli aspetti, dal mio punto di vista il più affascinante, ma sono, ovviamente, di parte, che caratterizza l’unicità individuale è l’attitudine al movimento.
Se è vero che siamo nati per muoverci, evoluti in un ambiente ideale per costruire, a partire dalla locomozione bipede e affermare, con abilità sempre più complesse, la nostra maestria motoria è altrettanto vero che oggi riusciamo a vivere (sopravvivere) anche in assenza di movimento (ed intendo motricità, parlo di fisiologia, non di patologia) grazie ad un habitat ipertecnologico tutto teso ad anestetizzare gli istinti primitivi della nostra specie.
Ci ritroviamo, dunque, in un mondo (e qui parlo della realtà economicamente sviluppata del mondo, quella in cui vivo e che conosco; non amplio il discorso perché sarebbe, sicuramente molto interessante, ma anche piuttosto complesso) dove, da un lato la ricerca della forma fisica viene vista come obiettivo fondamentale da raggiungere: dallo sportivo “della domenica” al fanatico dell’allenamento quotidiano esasperato, entrambi con una forte spinta edonistica a sostenerli, la possibilità di un pasto ipercalorico per uno, l’addome cesellato per l’altro. In contrapposizione, invece, troviamo chi proprio di muoversi non ne vuole sapere e si bea delle possibilità moderne per evitare anche la più piccola contrazione muscolare.
Al centro di questo caleidoscopico panorama … troviamo sgambettante, con la tuta e il cronometro, il “professionista del movimento”, l’uomo (leggasi essere umano) con in mano le sorti motorie della variopinta popolazione testé descritta.
O forse no?
Urge un piccolo passo indietro e una rapida analisi della figura del “professionista del movimento”.
Intanto … si fa presto a dire “Movimento”. Ma di cosa stiamo parlando? Una veloce ricerca etimologica pone in evidenza un verbo, “ameibien” dal greco antico, possiamo definirlo con “cambiare, mutare, spostarsi”. La radice -mei, di questo verbo, indice di cambiamento, la ritroviamo nel sanscrito (porre in moto) e nel latino “Movere”, dal quale ricaviamo la parola “Movimento”, ma anche “E-movere” e quindi la parola “Emozione” e “Motivum” da cui “Motivazione”. Ecco, da questo punto di vista, la parola “Movimento” acquista tutta un’altra luce e si scopre come sia prepotentemente legata ad altri due termini fondamentali, “Motivazione” e “Emozione”; il quadro acquista un’interessante complessità, insegnandoci come il “professionista del Movimento” debba occuparsi di diverse sfaccettature quando si pone nell’esercizio della sua professione.
È intuibile come questo sia a tutti gli effetti un grande “potere” esercitabile; la possibilità di poter agire quasi a 360° su ogni individuo è un modo di collegamento unico e speciale.
Tutto questo cosa comporta? Potrei rispondere con una citazione “Da un grande potere derivano grandi responsabilità” B.P. e da sola sarebbe già più che sufficiente a reggere il discorso.
Racconto un aneddoto dove, senza mezzi termini, questo potere e questa responsabilità emergono in maniera devastante.
<< “Già salire questi gradini mette un certo peso sul cuore”, penso mentre percorro la scalinata buia e ripida. Terzo piano del reparto più angosciante dell’ospedale. Stanza microscopica, silenziosa.
Un letto, una sedia e un’infinità di monitor, sembra il ritratto della camera di un hacker informatico, invece è solo l’anticamera della morte, il luogo dove lascerà l’ultimo respiro, poche ore dopo la mia visita, la persona che sto andando a salutare.
Confesso di aver paura ad entrare.
L’assenza di rumore è assordante, tutto è vorticosamente immobile, mi rendo conto di trattenere il respiro.
“Ciao, come promesso eccomi qui”.
Marina incalza: “Hai visto! Ti ho portato il coach”.
Il torpore farmaco-indotto svanisce per un attimo. Due occhi vivi si spalancano e mi squadrano, un braccio candido come la neve si lancia ad afferrare la maniglia posta sopra al letto.
Sforzo immane per mettersi a sedere.
Un sorriso sincero, come quello dei bambini.
Le lacrime scesero allora, come scendono adesso mentre scrivo.
Un gesto simbolico, volontario e profondo nel suo significato più vero.
Il movimento come ultimo appiglio alla vita.
“Sai, erano giorni che non riusciva più a farlo”, sussurrano i parenti.
Il potere di condividere il movimento, come avevamo fatto centinaia di volte in passato, ha restituito una forza sovrumana>>.
Da questo potere derivano, senza dubbio, grandi responsabilità.
Torniamo al discorso centrale: il movimento viene inquadrato, ora, da una luce diversa, lo guardiamo da una prospettiva laterale e riusciamo a scorgere sfaccettature sfuggenti in precedenza.
Il professionista, che voglia essere veramente tale, si pone in confronto con un paradigma nuovo del concetto motorio; per affrontarlo non è sufficiente una conoscenza degli esercizi (che sia buona o sommaria poco cambia) o delle combinazioni tra essi, ma uno scavo (Dig On) più profondo, uno sguardo che esca dalla visione “di tendenza”, per immergersi, senza paraocchi in un oceano infinito di possibilità.
Il confine tra il professionista e “l’improvvisato” (i vari coaches imperversanti in rete, ad esempio) deve essere questa differente capacità di analisi.
Il professionista del movimento deve, per affrontare coscienziosamente il proprio lavoro, prima di tutto fare un viaggio introspettivo, improntato alla conoscenza di sé, fondamentale per un rapporto con l’altro, indispensabile per la ricerca di un proprio “stile motorio” che sia libertà e non prigionia, apertura e non chiusura, trovare e non perdere.
Non è facile, anzi, è quasi impossibile, ma è l’unica strada percorribile per dare un senso a ciò che facciamo. “Non conta il risultato, o quantomeno non è così importante, ma è fondamentale il cammino” M.R. in quest’ottica dobbiamo iniziare a muoverci, abbiamo la possibilità di migliorare il mondo che ci circonda, ma dobbiamo prima imparare a migliorare noi stessi.
La strada?
Studio, esperienza, osservazione, pratica, apertura mentale, pensiero laterale.
L’Osteopatia è tutte queste cose. Intanto è studio del movimento, gli osteopati usano dire: “L'osteopatia è la regola del movimento, della materia e dello spirito, dove la materia e lo spirito non possono manifestarsi senza il movimento; pertanto noi osteopati affermiamo che il movimento è l'espressione stessa della vita”, declinando così, in modo preciso ed inequivocabile, come il muovere sia punto cruciale della pratica osteopatica; è esperienza, palpatoria da un lato, ma anche esperienza di vita, della propria e di quella del paziente; è osservare, meticolosamente, il corpo, i segni che esso presenta e i segnali che invia; è pratica, indefessa e continua, ma soprattutto è apertura mentale e pensiero laterale, quell’uscire dagli schemi, unica strada per poter comprendere a fondo l’individuo, unico, indivisibile. Mi fanno un po’ sorridere, infatti, gli strali lanciati, con un po’ di puzza sotto il naso (oggi si dice “radical chic, qualsiasi cosa significhi), da torri eburnee “sanitarie” che vedono gli “scienziati motori” fuori luogo nello studio della materia osteopatica, mentre io credo (ma sono decisamente di parte), viste le premesse, sia un matrimonio più che riuscito.
Ecco come due discipline, solo apparentemente lontane, diventano le due facce di una medaglia, o addirittura la stessa faccia della stessa medaglia, il movimento.
Siamo tornati al punto di partenza ed in effetti quello è lo scopo di ogni viaggio “Noi non cesseremo l’esplorazione e la fine di tutte le nostre ricerche sarà di giungere là dove siamo partiti e conoscere il luogo per la prima volta.”
Lo ripeto sempre, durante gli allenamenti o prima dei trattamenti osteopatici “dovete uscire dalla porta diversi da come siete entrati, non fermatevi in superficie, provate a guardare in profondità”; dobbiamo cercare di immergerci nell’attimo che stiamo vivendo e in ciò che stiamo facendo per poter accorgerci di quanto stiamo cambiando.
Possibilmente apprezzando la lentezza di questo processo.
Nella vita c’è di più che aumentarne la velocità (Mahatma Ghandi).
SL.A.
La prima immagine mi ritrae e mi appartiene
La seconda è tratta, modificata, dal testo "Il Karate nell'età evolutiva" di Davi-Sedioli Società Stampa Sportiva Roma 2002
La terza presa dal sito solistaosteopathy.com
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