A volte un trattamento si trasforma. ti trasforma. E devi solo ringraziare.
>GRAZIE<
Tutto inizia come al solito.
Vado incontro sorridente (spero che la mascherina lasci intravedere almeno la mimica facciale) al mio ospite, “prego accomodati, come va?”. Capisco sia una domanda retorica, se si presenta da me, probabilmente, c’è qualcosa che non funziona. L’intenzione è però un’altra, iniziare a scoprire le carte, valutare l’importanza che viene attribuita alla problematica in questione e scostare un poco il velo di riservatezza di chi vedo per la prima volta.
“Va tutto bene”.
La prima risposta è quella che conta, retaggio mnemonico della scuola elementare, ma anche, dal punto di vista della prossemica una prima indicazione importante.
“E poi questa schiena. Quando mi alzo sono – duro come un bacco – “. Altro pezzetto fondamentale. “E poi”, quindi vuol dire che prima viene altro, è qui per la schiena, ma in effetti c’è qualcosa d’altro più importante. Ora dipenderà da me scoprire cosa ed indirizzare il trattamento su quella via..
“Duro come un bacco” uso del dialetto, cerca una zona di confort e, con me, sfonda una porta aperta, il resto della seduta si trasferisce in gran parte sull’uso comunicativo di espressioni dialettali: mi accorgo di iniziare ad accompagnarlo verso la sua “direction of ease”, la direzione di facilità che, non è banalmente solo una “tecnica” osteopatica, è il vero trattamento.
Non posso dire di conoscerlo, l’avrò incontrato si e no un paio di volte, ma sono stato il maestro di educazione motoria della classe frequentata da sua figlia, dieci anni fa.
In parte questo mi aiuta ad entrare, è una persona molto riservata, di una genuinità così sincera ed onesta da leggergliela nello sguardo; uno sguardo che insegna, profondo, stanco, sofferente.
Ho ben chiaro il motivo delle sue afflizioni, sono assolutamente conscio di quanto “poi” venga la schiena, la disabilità grave della figlia, ormai vent’enne oltre ogni più rosea aspettativa, è un fardello e allo stesso tempo una spada di Damocle, una spinta vulcanica ad andare aventi e un plotone d’esecuzione psicologica.
Conosco la “primarietà” come piace dire agli osteopati bravi, ma se non apre lui quella porta, non mi serve a nulla.
Inizio a lavorare: cranio, fasce, schiena “dura come un bacco”.
Lo sento rigido, teso, esprime poco movimento e si lascia muovere poco. “Eh, mia moglie me lo dice sempre che sono troppo teso”.
Lavoro parecchio. “Come stai? Tutto a posto?” Glielo chiedo spesso, in selvatico idioma ligure, in modo da tenerlo ancorato al presente, a quella voglia di lasciarsi andare che percepisco di tanto in tanto nei tessuti, nella speranza che apra la porta e mi permetta di entrare.
Tutto sommato il trattamento trova anche una sua strada, i ritmi vitali iniziano a tamburellare un riff apprezzabile e, da un punto di vista squisitamente professionale, potrei anche ritenermi soddisfatto.
Termino con i consigli di rito e …
La porta si apre, si scardina, un fiume in piena mi travolge. Lo vedo scaricare pesi enormi, avverto il corpo distendersi e lo spirito aprirsi, finalmente. Sono parole che arrivano direttamente dal cuore e puntano direttamente al cuore, al mio. Abbasso il capo per non mostrare le lacrime, ma non serve, lui ha gli occhi chiusi e perso nel suo mondo di enorme coraggio e terrorizzante paura, di folle speranza e cupa rassegnazione, si mostra nudo, vero, umano in una semplicità imbarazzante dedicandomi cinque minuti di Vita che sono una lezione da imprimere nella memoria.
Percepisco un grande vuoto, freddo, tagliente come una lama affilata e allo stesso tempo la capacità di poterlo riempire con un amore enorme, devastante; non c’è rabbia o frustrazione o una comprensibile voglia di rivalsa contro il destino, no, ci sono solo parole colme d’amore, anche nella disperazione di un futuro ignoto, c’è sempre luce in ciò che sento.
Un respiro profondo. Il primo di tutta la seduta..
Scende dal lettino “a staggu za ciù ben – sto già meglio”, sorrido e anche i suoi occhi lo fanno, “mi sento più leggero” mi dice salutandomi.
Marina è nell’altro studio. Apro la porta e piango; le sa e mi lascia fare.
Questo è ciò per cui amo follemente questa disciplina, ma questo forse è anche il motivo per il quale mi spaventa.
- Non è mai la terapia; è sempre il paziente - (FS)
- La vita è un male degno di essere vissuto - (Fernando Pessoa)
L'immagine è tratta da:
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